La grande eruzione dell’Etna del 1669: quando la lava arrivò fino a Catania

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La grande eruzione dell’Etna del 1669: quando la lava arrivò fino a Catania

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Il prepotente risveglio dell’Etna genera nuovamente inquietudine tra le popolazioni che vivono intorno al vulcano attivo più alto d’Europa. D’altra parte la storia, sin dall’antichità, è ricca di episodi disastrosi che hanno interessato le zone alle falde etnee. In particolare, l’evento più catastrofico degli ultimi 500 anni, si sviluppa nel 1669 quando la lava addirittura raggiunge il mare, come in una spettacolare quanto terrificante eruzione di stampo hawaiiano. Ce ne parla il geologo Giampiero Petrucci
Nel corso della sua storia Catania è stata afflitta da diversi cataclismi. Non manca niente: terremoti, eruzioni, tsunami. Il primo evento storicamente accertato è datato 4 febbraio 1669, vigilia del giorno di Sant’Agata, l’amatissima Patrona della città. Intorno alle ore 21 si verifica una forte scossa sismica, di magnitudo stimata intorno a 6.6, con epicentro di difficile collocazione (per alcuni autori nei pressi di Lentini, per altri in mare). Catania è devastata. La cattedrale, piena di fedeli raccolti per la funzione dedicata a Sant’Agata, crolla: muoiono almeno cento persone tra cui pure il vescovo Aiello. Segue uno tsunami che colpisce con violenza non solo la città etnea ma l’intera costa ionica, da Messina (dove crollano chiese ed abbazie) alla foce del fiume Simeto. Le scosse, che perdurano diversi giorni, provocano danni ingenti e vittime anche a Modica, Lentini, Aci Castello, Siracusa e Piazza Armerina. Almeno 10mila le vittime stimate. La sequenza sismica provoca il collasso della parte orientale dell’Etna, con conseguente sgorgo di potenti colate laviche le quali, dirigendosi verso sud-est, giungono fino al mare ad Aci Castello. La leggenda popolare vuole che il disastro termina quando viene portato in processione il velo di Sant’Agata.

etna1Esattamente cinquecento anni dopo, nel 1669, una delle eruzioni più spettacolari della storia etnea. Il vulcano, chiamato anche Mongibello (dall’arabo Mons Gibel), si trova in fase di quiescenza da una quindicina di anni: l’ultima eruzione importante è datata 1651 quando la lava distrusse Bronte. Nel 1669 tutto inizia ai primi di marzo. Tra il giorno 8 ed il giorno 11 una serie di terremoti, evidentemente precursori, colpiscono il versante sud-orientale dell’Etna, provocando crolli e danni ingenti soprattutto a Nicolosi ma pure a Trecastagni, Pedara, Mascalucia e Gravina. La popolazione, già atterrita, rimane ulteriormente sconvolta dall’inizio dell’eruzione che si sviluppa tramite una serie di fratture aperte sull’alto versante meridionale, tra Monte Frumento e Piano San Leo, a 2800 e 1200 metri di quota rispettivamente. Nella zona di Nicolosi si aprono diverse bocche, pure in corrispondenza del rilievo che oggi è chiamato Monti Rossi. Ben presto la lava si riversa nelle campagne, distruggendo Nicolosi e raggiungendo il Monpileri, il cono a sud del paese e retaggio, secondo gli scienziati, dell’eruzione avvenuta addirittura nel 693 a.C.

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Dal 13 marzo la colata lavica si dirama da Nicolosi in tre direzioni, diventando via via sempre più irrefrenabile: verso occidente distrugge Malpasso (allora abitato da circa ottomila abitanti) il quale poi sarà ricostruito più in basso e prenderà il nome di Belpasso. Verso oriente invece travolge Mascalucia. Insieme alla lava il vulcano erutta anche prodotti piroclastici, soprattutto lapilli e cenere che dapprima ricopre Pedara e Trecastagni, poi, spinta da un sensibile vento di sud-ovest, giunge fino in Calabria. L’eruzione continua violenta ed il 15 marzo il fiume di lava arriva a S. Giovanni Galermo, distruggendo numerose abitazioni. La popolazione ha il tempo di fuggire: la lava, infatti, non produce vittime umane. Tuttavia niente può fermare la colata e tutti i paesi a sud della montagna subiscono la triste sorte: anche S. Pietro e Camporotondo vengono raggiunti dal ramo più occidentale del flusso e semidistrutti. Entrambi saranno parzialmente ricostruiti al di fuori della colata.

Il paesaggio assume contorni lunari ed infernali: il 25 marzo il cratere centrale collassa e sprofonda, lanciando prodotti piroclastici e generando ulteriore distruzione. Sfruttando la morfologia acclive, la lava acquista velocità a potenza, distruggendo ogni cosa sul suo cammino senza che né la popolazione né tanto meno le autorità riescano a contrastare l’avanzata. D’altra parte non esiste il minimo mezzo a salvaguardia del territorio: qualche coraggioso, armato di coraggio ed ingegno, prova a costruire delle barricate con le rovine delle abitazioni, ma il tentativo si rivela fallimentare, anche per le proteste di altri paesi (in particolare Paternò), risparmiati dalla lava, che temono di essere invasi dal flusso vulcanico.

Così il giorno 29 la colata principale raggiunge Misterbianco, allora posizionato più a nord-ovest dell’attuale, travolgendolo.

I catanesi iniziano a preoccuparsi e qualcuno ricorda il triste evento di 500 anni prima. Si invoca Sant’Agata ma stavolta niente e nessuno riesce a fermare la colata. Il 1 aprile la lava invade le prime borgate cittadine (tra cui Cibali), seppellisce l’antico lago di Anicito (o Nicito) e raggiunge la cinta muraria. Si spera che le mura arrestino la terribile avanzata ma non è così: i bastioni di S. Giorgio e di Santa Croce vengono sovrastati ed il flusso, alto ormai diversi metri, penetra in città, generando panico e distruzione. Sfruttando la morfologia, si dirige a sud-ovest, travolgendo le effimere barricate edificate in fretta e furia dai catanesi, in particolare nell’attuale piazza S. Maria di Gesù. Numerosi sono gli edifici distrutti, perfino il convento dei Benedettini. Per venti giorni Catania è invasa dal fiume di fuoco cui nessuno riesce a porre un freno. Diverse decine di migliaia di abitanti si ritrovano improvvisamene senza tetto, in un panorama spettrale e governato dalla furia della natura: poco a poco la città si spopola ma sono ancora molti quelli che assistono all’ultimo spettacolo. Il 23 marzo la lava raggiunge ed oltrepassa il Castello Ursino, per terminare finalmente la sua corsa in mare, nella zona dell’attuale porto. In un tragitto che ricorda le eruzioni hawaiane, tra sbuffi e fumi, il flusso lavico penetra in mare per circa un km, poi si arresta definitivamente. Il risultato è l’ampliamento della linea di costa.

La fase parossistica dell’eruzione, la più grande dell’ultimo millennio, termina sostanzialmente qui ma fino al 15 luglio il vulcano continua ad emettere lava e prodotti piroclastici, sia pure con intensità decisamente inferiori. I dati dell’evento parlano da soli: 122 giorni di durata, 16 km di colata lavica, una quarantina di kmq di territorio sepolto, 900 milioni di mc di materiale eruttato, 16 paesi distrutti tra cui Catania che per la prima ed unica volta nella storia viene raggiunta e lesionata dalla lava. Un evento che segna a lungo la città etnea ed il territorio circostante che però saprà nuovamente risollevarsi e riprendersi. D’altra parte, come già anticipato, non è la prima né l’ultima volta che Catania deve fare i conti con la potenza della natura.

BIBLIOGRAFIA

  • Azzaro R., Barbano M.S., Morono A., Mucciarelli M., Stucchi M., The sesimic history of Catania, Journal of Seismology, Vol 3, pp 235-252,, 1999

  • Corsaro R. A., Cristofolini R., Patanè L., The 1669 eruption of Mount Etna: chronology, pertology and geochemistry, with inferences on the magma source and ascent mechanisms. Bulletin Volcanology, Vol 59, pp 348-358, 1996

  • Cristofolini R., L’Etna nell’ambito del vulcanismo terrestre, Bollettino Accademia Gioenia Sci. Nat., Vol. 41, n. 369, pp. 28-39, 2008

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