Il clima che cambia influenzerà le prossime ondate migratorie
Nei prossimi decenni il cambiamento climatico potrebbe causare la migrazione di 140 milioni di persone nei paesi in via di sviluppo. Ma la diminuzione delle emissioni di gas serra e opportuni progetti di sviluppo potrebbero ridurre drasticamente l’entità del fenomeno
di Andrea Thompson/Scientific American
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Mentre il mare s’insinua stabilmente nell’entroterra in paesi come il Bangladesh, e mentre le piogge diminuiscono, mettendo fuori gioco campi agricoli già marginali in Etiopia e in altri luoghi, all’orizzonte stra prendendo forma un’ondata di migrazione innescata dal clima che cambia.
La maggior parte dei “migranti climatici” però non si dirigerà all’estero per iniziare nuove vite: si stabiliranno altrove nei loro paesi d’origine. Un nuovo rapporto della Banca Mondiale pubblicato di recente mostra che se non si farà nulla per ridurre il riscaldamento globale e per scongiurare le migrazioni con progetti di sviluppo, entro la metà del secolo, questi spostamenti interni di popolazioni potrebbero coinvolgere più di 140 milioni di persone nelle tre regioni esaminate: Africa sub-sahariana, Asia meridionale e America Latina. “Il cambiamento climatico è già un fattore di migrazione interna, e in futuro sarà sempre più così”, afferma John Roome, senior director per i cambiamenti climatici del World Bank Group.
Questo potenziale aumento in aree che comprendono il 55 per cento della popolazione del mondo in via di sviluppo solleva questioni di giustizia ambientale perché coloro che hanno contribuito meno al riscaldamento globale sono costretti a sopportarne la maggior parte del peso. Spetta ai paesi sviluppati come gli Stati Uniti farsi avanti, afferma Maria Cristina García, professoressa di studi americani
alla Cornell University, che non ha partecipato alla stesura del rapporto. I paesi sviluppati possono contribuire sia a limitare le emissioni di gas serra sia a finanziare gli sforzi per aiutare le nazioni in via di sviluppo a pianificare le sfide della migrazione climatica, dice García. “Alcune persone dovranno migrare qualunque siano le misure che verranno prese, ma “questo non deve diventare una crisi”, sottolinea Roome. Una migrazione correttamente gestita potrebbe anche portare maggiori opportunità economiche ad alcune comunità povere, sostengono gli autori del rapporto della Banca Mondiale. Ma la pianificazione deve iniziare ora.
Persone non considerate
Lo studio delle migrazioni climatiche è ancora relativamente nuovo, e le proiezioni su quante persone potrebbero essere cacciate dalle loro case mentre il mondo si scalda sono difficili da definire. Le previsioni sugli impatti dei cambiamenti climatici portano un’incertezza intrinseca e le ragioni per cui le persone decidono di migrare – o per cui sono costrette a farlo – spesso sono complesse. Per ottenere un quadro più chiaro del modo in cui questa vicenda potrebbe svolgersi, gli autori del rapporto hanno sviluppato un modello di come gli effetti climatici più lenti (quali la perdita di zone costiere a causa dell’innalzamento del livello del mare, insieme con la scarsità di acqua e i danni ai raccolti causati dai cambiamenti delle piogge e dalle temperature più elevate) hanno influito sulle popolazioni colpite nelle tre regioni considerate nella pubblicazione. Si sono concentrati sulla migrazione interna perché la maggior parte delle persone cacciate da casa – per ragioni economiche, per il clima o per altri motivi – è costretta a spostarsi all’interno dei propri paesi.
I modelli hanno esaminato come le popolazioni potrebbero spostarsi in futuro se le emissioni di gas serra diminuissero e hanno confrontato questo scenario con quello che potrebbe accadere se le emissioni continuassero sulla loro traiettoria attuale. I modelli hanno incluso anche esempi in cui la programmazione dello sviluppo alleviava la disuguaglianza economica, e altri in cui la disuguaglianza si aggravava. Nello scenario in cui le emissioni continuano a salire e lo sviluppo rimane diseguale, la migrazione interna raggiunge il suo picco, riguardando circa 86 milioni di persone in Africa sub-sahariana, 40 milioni in Asia meridionale e 17 milioni in America Latina entro il 2050. Ma affrontare entrambi i problemi riduce sostanzialmente il numero dei migranti fino a 31 milioni in tutte e tre le regioni.
In ogni regione sono emersi hot–spot di migrazione, cioè luoghi che probabilmente verranno abbandonati e le probabili destinazioni. “L’impatto del clima sulla migrazione non è uniforme tra i diversi paesi e neppure al loro interno”, spiega Roome. Per esempio, le persone potrebbero lasciare in misura crescente gli altipiani settentrionali dell’Etiopia, dove l’agricoltura dipende da piogge stagionali che ora sono inaffidabili. È probabile che altre fuggano dalle zone costiere del Bangladesh, dove l’acqua salata che si infiltra nelle riserve di acqua potabile di 20 milioni di persone potrebbe già causare un aumento delle malattie da diarrea. Il rapporto ha anche rilevato che il cambiamento climatico potrebbe indurre le persone a lasciare i centri urbani che da molto tempo attirano i migranti con la promessa di posti di lavoro più remunerativi. La capitale del Bangladesh, Dhaka, una città tentacolare di oltre 17 milioni di persone, è minacciata dall’innalzamento del livello del mare e da onde di tempesta sempre più alte; Addis Abeba, capitale dell’Etiopia con tre milioni di abitanti, potrebbe avere piogge sempre meno prevedibili e quindi un approvvigionamento idrico instabile.
I risultati generali del rapporto non sono una sorpresa per i ricercatori che nell’ultimo decennio circa hanno studiato la migrazione climatica, dice García, che sta scrivendo un libro sulle migrazioni climatiche. In termini generali le migrazioni di solito sono associate a rifugiati che fuggono verso altri paesi in tempo di guerra o per altre crisi, con le Nazioni Unite e altre agenzie che tengono traccia di quelli cacciati fuori dai confini della loro patria. Le migrazione interne però sono meno seguite. “Non abbiamo molti dati affidabili”, afferma Alice Thomas, responsabile del programma sulle migrazioni climatiche dell’organizzazione no profit Refugees International. “Spesso avvengono lentamente nel tempo, e quelle persone non sono considerate”.
Chi porta il peso?
Gli autori avvertono che il rapporto non è da intendere come una previsione precisa, ma piuttosto come una guida su che cosa potrebbe accadere e un aiuto per pianificare la risposta a potenziali sconvolgimenti. Questo tipo di modellizzazione è utile “non perché uno scenario ci dà la risposta” ma perché fa luce sulle varie forze che influenzano la migrazione, afferma il co-autore del rapporto Alex de Sherbinin, vice-direttore del NASA Socioeconomic Data and Applications Center alla Columbia University.
“Si tratta di una visione a lungo termine del problema”, afferma il coautore del rapporto Kanta Kumari Rigaud, uno dei principali esperti ambientali della Banca Mondiale. Per esempio, Kumari afferma che i paesi possono promuovere attività meno soggette alle fluttuazioni climatiche per aiutare le comunità ad adattarsi e prevenire la necessità che le persone se ne vadano. L’Etiopia ha fatto così, osserva il rapporto, promuovendo una diversificazione della propria economia: attualmente tre quarti della sua popolazione dipendono dall’agricoltura, ma il governo, con l’aiuto della Banca Mondiale, ha implementato una gestione più sostenibile del territorio.
Vari sforzi per sostenere l’economia e ridurre la povertà hanno portato a un surplus di 50 miliardi di dollari nel prodotto interno lordo nell’ultimo decennio, oltre un maggior numero di iscrizioni scolastiche e servizi igienico-sanitari migliori. I governi possono anche intervenire per fornire supporto prima che gli spostamenti delle popolazioni diventino inevitabili, suggerisce il rapporto, cioè evitando di aspettare che le famiglie abbiano esaurito tutte le loro risorse combattendo la siccità o l’innalzamento dei mari. I servizi sociali potrebbero aiutare a promuovere posti di lavoro in aree più stabili dal punto di vista climatico, per esempio. Questo potrebbe aumentare le prospettive economiche delle famiglie e dei paesi nel loro complesso. “Se tutto ciò fosse programmato, tutti potrebbero trarne beneficio”, dice Thomas.
Ovviamente, questo tipo di pianificazione richiede uno sforzo dedicato, che addirittura nazioni sviluppate come gli Stati Uniti hanno faticato a implementare. Thomas nota che migliaia di persone hanno lasciato Puerto Rico per la terraferma dopo l’uragano Maria lo scorso autunno, in gran parte perché avevano ricevuto poco sostegno. “Persino nei paesi ricchi non sono in vigore leggi e politiche adatte”, afferma Thomas. “Queste misure richiederanno molto tempo per essere messe in atto”.
Ma sono i paesi più poveri “che stanno pagando il prezzo più alto e ospitano le popolazioni che sono costrette a soffrire di più”, dice Thomas. Gli Stati Uniti e altre nazioni più ricche si sono nominalmente impegnate in alcuni sforzi, incluso il Green Climate Fund, per aiutare i paesi in via di sviluppo a studiare e pianificare gli impatti climatici. Ma molti degli attori più ricchi devono ancora mantenere le loro promesse; gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Trump, hanno esitato a fornire più soldi per programmi del genere.
Anche nel caso in cui saranno fatti sforzi seriamente concertati per ridurre le emissioni di anidride carbonica e per promuovere uno sviluppo più equo, milioni di persone saranno ugualmente costrette a spostarsi a causa dell’inevitabile riscaldamento già in atto. Gli autori e altri esperti sperano che il nuovo rapporto possa stimolare l’azione e la ricerca sulla questione. “Speriamo – dice Roome – che questo rapporto possa portare a una sensibilizzazione sul problema e stimolare un po’ di questa volontà politica”.
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su Scientific American il 23 marzo 2018. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)