Il terremoto di Mw 6.3 del Belice del 15 gennaio 1968, un disastro naturale e disastro sociale

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Il terremoto di Mw 6.3 del Belice del 15 gennaio 1968, un disastro naturale e disastro sociale

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Vita (TP), 14 Gennaio 1968.

Da poco si è conclusa un’assemblea cittadina nella sala del consiglio comunale e, mentre gli uomini continuano a discutere animatamente, i bambini giocano ad acchiappareddu. All’improvviso, da una della case basse che danno sulla piazza, esce un uomo che afferra per i polsi uno dei bambini e lo spinge dentro casa gridando: ”Dentro, dentro, disgraziato! Dentro che c’è lu terremoto”. E lo trascina dentro casa, sbarrando il portone con tutti i ferri disponibili. Per chiudere fuori il terremoto.

Questo episodio, raccontato da Lorenzo Barbera in uno dei suoi libri, ci dà un’immagine quasi fotografica dell’impreparazione, quasi del rifiuto che l’idea stessa di terremoto generava tra la gente del Belice. Dopo le prime scosse accadute nel pomeriggio e nella serata del 14 gennaio causando danni limitati, un terremoto di magnitudo stimata Mw pari a 6.3 alle 3.01 del mattino del 15 gennaio 1968 si abbatté sulle case della gente del Belice, sulle loro vite, sui loro paesi, sulla loro storia e li distrusse per sempre. E distrusse anche quella ingenua speranza di tener lontano il disastro, che diventò invece una sorta di spartiacque del tempo, tanto che ancora oggi tra la gente del Belice si parla di “prima” e “dopo” il terremoto. In generale, questo concetto vale un po’ per tutta l’Italia. Tanto è vero che prima del 15 gennaio 1968 nessuno conosceva l’esistenza di Gibellina, Santa Ninfa, Montevago, Contessa Entellina, S. Margherita Belice, Vita, Salaparuta, Poggioreale. Da quella data in poi questi nomi sono entrati nell’immaginario collettivo come sinonimo di disastro. Disastro naturale e disastro sociale.

Copertina de “L’Unità” all’indomani del terremoto del 15 Gennaio 1968

Copertina de “L’Unità” all’indomani del terremoto del 15 Gennaio 1968.

La sequenza sismica

I freddi numeri raccontano di una sequenza sismica durata molto a lungo, sino a febbraio del 1969. La scossa principale fu preceduta da una serie di eventi minori iniziati il 14 Gennaio, di cui tre con magnitudo momento Mw compresa fra 4.9 e 5.2, e seguita da altri 79 eventi, con una forte replica di magnitudo Mw=5.5 il 25 gennaio (CPTI11). Dalla fine di gennaio al 1° giugno dello stesso anno furono registrati dall’Università di Messina altri 65 terremoti con magnitudo M≥3 e circa un migliaio di repliche con magnitudo M≥2. Per quel che riguarda la profondità, molti studiosi concordano con Bottari (1973) che sostiene una localizzazione crostale degli ipocentri (profondità ≤28 km), compresi i terremoti più forti. Secondo Anderson e Jackson (1987), invece, le profondità focali arriverebbero fino a 36 km. E’ da sottolineare che si discute ancora molto sulla localizzazione delle scosse principali della sequenza, sulle loro profondità e sulla determinazione della magnitudo. Tutti questi parametri risentono, ovviamente, della modesta densità di stazioni sismiche al tempo del terremoto e sulla non ottimale qualità dei pochi dati strumentali disponibili.

La disastrosa sequenza interessò l’area compresa fra le province di Agrigento, Trapani e Palermo, comunemente definita col termine di Valle del Belice con molti eventi allineati lungo la direzione NE-SO della Valle. Il terremoto provocò danni in diversi comuni della Sicilia centro occidentale, quindici in totale. L’area danneggiata in modo più rilevante fu molto vasta, all’incirca un triangolo che va, ad ovest, da Menfi a Salemi, attraverso Partanna e Santa Ninfa e, ad est, a Poggioreale attraverso S. Margherita.

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Distribuzione degli effetti del terremoto del 15 gennaio 1968 secondo lo studio di Guidoboni et al. (2007) [fonte: DBMI11]

Dei quindici paesi interessati, dieci furono quelli maggiormente colpiti e, fra questi, quattro furono completamente distrutti: Gibellina, Montevago, Salaparuta e Poggioreale. Gli altri paesi in cui si riscontrarono le più alte percentuali di danni furono Santa Ninfa, Santa Margherita Belice, Partanna, Salemi, Menfi, Contessa Entellina, Vita e Camporeale; mentre danni minori si ebbero a Roccamena, Castelvetrano e Sambuca. La dolorosa conta delle vittime racconta di 352 morti e 576 feriti (Di Sopra, 1992). I senzatetto furono 55.700. Il numero relativamente contenuto delle vittime, se paragonato all’enorme portata delle distruzioni, fu dovuta in gran parte all’allarme suscitato nelle popolazioni dalle scosse premonitrici del pomeriggio del 14 gennaio.

Purtroppo, la mancanza di evidenze di effetti visibili sul terreno legati alla presenza delle faglie che hanno scatenato questa drammatica sequenza, ha fatto sì che ancora oggi il dibattito sia aperto e molte sono le ipotesi sulla reale struttura geologica responsabile della sequenza. Solo recentemente (Barreca et al., 2014) una analisi multidisciplinare ha rivelato, grazie all’utilizzo di tecniche geodetiche satellitari (InSAR e GPS) e ad una serie di profili sismici in mare ad alta risoluzione, l’evidenza di faglie inquadrabili nello stesso contesto delle strutture responsabili del terremoto del 1968 e che potrebbero essere anche legate alle due scosse (IV secolo a.C. e IV-VI secolo d.C – Bottari et al., 2009) che hanno distrutto l’antica città greca di Selinunte.

L’impatto del terremoto e la ricostruzione

Da qui in poi questa triste storia smette di essere competenza di geofisici e gestori dell’emergenza e diventa materia per fiumi di inchiostro spesi su leggi, regolamenti, giornali, interrogazioni parlamentari, atti di commissioni d’inchiesta, libri e progetti di ricostruzione. Riuscire a ricavare numeri certi per la ricostruzione è pressoché impossibile perché, di fatto, è ancora in corso oggi, a 48 anni dalla sequenza sismica. Solo fino al 1990 (Di Sopra, 1992) gli stanziamenti ammontavano alla cifra di 7.932,6 miliardi di lire (circa 4 miliardi di Euro). In questa somma sono contabilizzati anche i costi per le molteplici infrastrutture destinate all’intera Sicilia Occidentale. Inoltre, il terremoto fece scoprire agli italiani che, proprio mentre a Milano o a Roma si vivevano gli ultimi bagliori del miracolo economico che aveva reso l’Italia una delle potenze economiche mondiali, in un pezzo del loro Paese, di fatto, ci si trovava ancora in una situazione socio-economica medievale. In quel pezzo di Sicilia, da molti anni prima del terremoto, si muovevano figure estremamente carismatiche e ben note in tutta Italia, come il sociologo friulano Danilo Dolci, il Gandhi italiano, più volte indicato come meritevole del premio Nobel per la pace o Lorenzo Barbera, attivissimo nel Belice e promotore del Centro Studi che ebbe un ruolo di primo piano nelle lotte dei belicini per la ricostruzione e per lo sviluppo. O anche Don Riboldi, parroco di Santa Ninfa all’epoca del terremoto, che fu promotore di iniziative fondamentali per la sua gente minacciata dalle insidie mafiose che vedevano nella ricostruzione del Belice un lucroso affare. Tutti costoro stavano lavorando per dare una coscienza sociale alle popolazioni della Valle del Belice e il terremoto rappresentò allo stesso tempo un ostacolo enorme e una grossa opportunità.

Il capitolo della ricostruzione, purtroppo, fu un dramma dal quale tuttora si fatica a tirarsi fuori. La costante presenza della mafia, le scelte basate su criteri discutibili, che sconvolgevano l’assetto tradizionale urbanistico in favore di concetti mutuati dall’architettura del Nord Europa o l’opzione di abbandonare del tutto molti dei paesi distrutti e di ricostruirli altrove, e la precarietà nella disponibilità di fondi sufficienti, hanno fatto sì che oggi gli italiani pensino al Belice come a una sorta di pozzo senza fondo. Soprattutto se si confronta quella ricostruzione con altri casi, quale quello del terremoto del Friuli del 1976. Ovviamente queste analisi hanno il difetto della scarsa oggettività in relazione alle differenze di contesto, di impatto e di scelte “filosofiche” di base (ricostruzione di ciò che è stato danneggiato versus ricostruzione ex novo di interi paesi e di tutte le infrastrutture).

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Belice 1968: Una celebre foto di Toni Nicolini.

Anni fa, provocatoriamente, durante un convegno, qualcuno disse che l’unico cambiamento sostanziale che il Belice aveva ottenuto grazie al terremoto era lo spostamento dell’accento (la vera denominazione infatti era Belìce e non Bèlice, come erroneamente riportato dai giornalisti al tempo del terremoto e da allora diventato il “nuovo” nome della valle). Ma è davvero così? Ciò che è certo è che oggi, il Belice, a 48 anni da quell’evento è profondamente diverso, ma è ancora una terra dove i giovani preferiscono l’emigrazione e dove la parola “sviluppo” assomiglia ad un’irraggiungibile chimera.

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Il Cretto di Alberto Burri, una delle più grandi opere di land art al mondo.

Se uno spazio c’è per la speranza, questo è legato alle immense potenzialità turistiche della zona, dotata di splendide attrattive naturali e di veri e propri musei a cielo aperto (la Gibellina del sindaco-mecenate Ludovico Corrao con le opere di Consagra e Schifano e le architetture di Quaroni e Purini, o il Cretto di Burri – immenso sudario di cemento sul vecchio paese di Gibellina, realizzato dall’artista umbro Alberto Burri) e dall’impetuoso affermarsi a livello mondiale di vini di eccellente qualità originari di questo lembo di Sicilia tanto martoriato quanto meraviglioso.

a cura di Mario Mattia  (INGV, Sezione di Catania)

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