L’AQUILA, 5 FEBBRAIO 2017
6 aprile 2009, ore 3:32 – 42°20′51.36″N 13°22′48.4″E. Dal monte Luco, a pochi passi dal Centro Storico di L’Aquila, si scatena la forza della terra, travolgendo in pochi secondi col suo rombo e le sue onde tutta la città e cambiando radicalmente la vita dei suoi abitanti. Le vittime saranno 309, i danni al patrimonio artistico e culturale enormi, quelli al tessuto sociale di tutto il circondario del capoluogo abruzzese incalcolabili.
A otto anni di distanza ho deciso di visitare L’Aquila e Onna, e di vedere coi miei occhi, per poi raccontarlo, come si presenta ora.
Io e i miei compagni di viaggio arriviamo a L’Aquila alle 11 circa della mattina di domenica 5 febbraio. Parcheggiamo le nostre auto in Piazza della Fontana Luminosa e da lì parte la nostra camminata per le vie di una delle città più belle e ricche di cultura in Italia. La prima tappa del giro è la Fortezza Spagnola, imponente e meravigliosa, resa ancor più solenne dal cielo plumbeo e pieno di nubi minacciose che oggi la sovrasta. Una gru su un fianco, elemento discordante e figlio della tragedia, ne rovina solo parzialmente le linee, le impalcature sulla sua parte frontale la violentano in maniera peggiore.
Torniamo verso le vie del Centro, superando l’Auditorium del Parco di Renzo Piano, e resto colpito dallo stato degli edifici. Non avevo mai visto una città colpita da un terremoto prima d’ora, se non in televisione o nelle fotografie. Vederlo coi propri occhi significa viverlo in tutt’altra maniera. Palazzi che mostrano profonde cicatrici, scheletri di legno e ferro a evitare che tutto crolli, a salvare il salvabile prima dei futuri interventi. Nulla è intero, tutto è irregolare, le ferite sono ovunque: lì dove meno di otto anni fa le persone parlavano, vivevano, mangiavano, facevano all’amore, ora regna solo il silenzio, dove c’era vita ora c’è il vuoto.
Continuando a camminare ci si imbatte in frequenti cartelli con la scritta “Zona rossa”. Una zona rossa non più sorvegliata da nessuno, nella quale si può transitare senza alcun problema, anche se non so se sia una cosa priva di rischio. L’impressione è che addentrandosi nel cuore della città la situazione sia peggiore, le strade più sghembe, i muri più fratturati, il silenzio più silenzioso.
In via Garibaldi una carriola riposa a terra, a ricordarmi il “movimento delle carriole”, quei cittadini che il 28 marzo 2010, a poco meno di un anno dal sisma, entrarono nella zona rossa “armati” di carriole come questa, per rimuovere le macerie che giacevano abbandonate nel cuore della loro città. Subiranno anche un processo per la loro manifestazione non autorizzata, per essere entrati senza permesso in zona rossa, addirittura per la violazione del silenzio elettorale all’indomani delle elezioni provinciali.
E si va avanti, superando la chiesa di San Silvestro abbracciata a robuste impalcature. In Via Duca degli Abruzzi una scritta su un muro recita “vota casalesi”, non so se con ironia, provocazione o che altro. Giungiamo al Ponte del Belvedere, anch’esso gravemente ferito, quasi disteso a mostrare le sue vene scoperte, ma pronto ad accoglierci per mostrarci quello che è ora il nuovo skyline del Centro Storico aquilano: una distesa di gru, oggi immobili, a testimonianza di quanto ancora sia lontana la vista di una città pronta a vivere di nuovo.
All’ingresso del ponte un hotel stuprato dalla violenza della terra e dal pressapochismo umano. A sinistra lo skyline del centro storico, a destra il monte Luco, origine di tutto. Ai suoi piedi Via XX Settembre e i quartieri ad essa vicini, i più colpiti dal terremoto, quelli bagnati da più lacrime.
Superato il ponte si scende verso quello che è il vero centro del disastro, la zona di Via XX Settembre. Qui sorgeva il primo palazzo di cui è stato documentato il crollo dalle telecamere RAI all’alba del 6 aprile. Le prime immagini di come L’Aquila era diventata dopo quella manciata di secondi terribili. Al civico 79 rimasero sotto le macerie 9 persone; sarà poi stabilito nei processi seguenti alla tragedia che quel palazzo era progettato male e costruito peggio, ma non ci saranno colpevoli, perché tutte le persone direttamente responsabili per quel lavoro svolto circa cinquant’anni prima sono già morte.
Poco distante da qui, quello che è uno dei simboli del terremoto di L’Aquila, ma soprattutto delle pessime abitudini italiane, e di come da una parte c’è sempre qualcuno a piangere i morti, dall’altra qualcun altro li ha causati direttamente, e nel farlo si è arricchito. Sono di fronte alla Casa dello Studente, e faccio fatica a contenere le emozioni contrastanti mentre scatto le mie foto.
La Casa dello Studente fu costruita nel 1965 dalla Casa Farmaceutica Angelini, poi ristrutturata e ampliata per modificarne la destinazione d’uso nel 2000. Solo che nello svolgere questi lavori non furono calcolati i rischi derivanti dall’intervento. Per imperizia? Incapacità? Pressapochismo? Lucro? Non mi è dato di saperlo. Fatto sta che l’11 maggio del 2015 i tre ingegneri responsabili di quel lavoro sono stati condannati a 4 anni di reclusione e il presidente della Commissione collaudo dell’Azienda per il diritto agli studi universitari a 2 anni. Quell’edificio era destinato a cadere sotto i colpi del terremoto perché era stato modificato in maniera errata. Il terremoto lì doveva arrivare, non era di certo la prima volta che accadeva (dalla prima metà del 1200, periodo della fondazione della citta di L’Aquila, si sono susseguiti almeno 6 sismi violenti che l’hanno coinvolta direttamente, negli anni 1315, 1349, 1461, 1646, 1672, 1703). In quell’edificio hanno perso la vita 7 studenti e il portiere dello stabile.
A poco più di cinquanta metri da qui, si possono osservare dall’alto i quartieri maggiormente colpiti dai crolli ingenti avvenuti nel 2009. Quartieri costruiti sulle macerie del terremoto devastante che colpì la città nel 1703, e che come allora hanno dovuto pagare il loro tributo alla terra. Sulla destra rimango colpito da un palazzo nuovissimo: conto sei piani e non posso fare a meno di domandarmi se sia sensato costruire un edificio simile ora e in quella zona. Accanto a questo bel palazzo nuovo di zecca le macerie del 2009, sotto di esso le macerie del 1703. Forse sono io a non capire, ma continuo a guardarlo e mi spaventa a morte.
Continuiamo nel nostro viaggio, e Natalia e Max, i miei “ciceroni”, mi mostrano quello che rimane di un palazzo di cinque piani, in Via Campo di Fossa (i nomi delle vie a volte sembrano volerti parlare: Via Campo di Fossa, poco distante Via Cola d’Amatrice). Mi spiegano che quello è il palazzo che ha prodotto il maggior numero di vittime (27) all’interno di quella immane tragedia. Via Campo di Fossa 6B. Non ci sono colpevoli neppure per questa tragedia. Si parla di cemento inadeguato, di poco acciaio, di pericolosa pendenza. Ma non c’è qualcuno a cui dare la colpa. Una storia fin troppo vista, rivista, stravista.
Da qui, dopo aver visto la parte più dolorosa della storia, ci incamminiamo per tornare alle nostre auto. Seguiamo un altro percorso e ho modo di vedere altre cose significative: chiese in difficoltà, la bellissima Piazza del Duomo con la chiesa di Santa Maria del Suffragio che si nasconde timida dietro le impalcature, a celare il suo dolore. E a pochi passi dalle nostre macchine, le cucce per i cani randagi nel Parco del Castello. Un altro simbolo di L’Aquila, ma finalmente un simbolo positivo, una traccia di umanità.
Dopo quasi 10 km a piedi per il centro, la cosa che mi fa pensare e soffrire è rendermi conto che in tutta quella strada percorsa, in circa tre ore, non ho incrociato quasi nessuno, in questa domenica mattina e in un centro storico che prima di quelle 3:32 doveva essere pieno di vita. La vita pare essersene andata, e fatta eccezione per gli amici che sono con me in questa avventura, chi la fa da padrone e chi mi accompagna sono il silenzio e la desolazione. Il silenzio assordante di qualcosa che non c’è più e non puoi sapere se tornerà mai, la desolazione della morte che ha allungato le sue dita ossute su un’intera, meravigliosa città.
Dopo il pranzo chiedo ai miei compagni di portarmi a Onna. Dal 2009 il nome di questa piccola comunità mi è rimasto piantato in mente, e con esso la storia di un paesello che in qualche secondo vede diminuire di un sesto la propria popolazione e scomparire quasi totalmente la materia che lo componeva. Prima di inoltrarci in quella che una volta era Onna, ci soffermiamo sulle foto storiche scattate prima del sisma, appese all’esterno dei recinti del villaggio della Protezione Civile, che divide “Onna vecchia” da “Onna nuova”. Camminando per le vie della vecchia Onna, non riuscirò a riconoscere neppure un sasso di ciò che avevo visto pochi minuti prima in quei bellissimi scatti. Anche qui a dominare incontrastato è il silenzio: in alto un sole basso e pronto a tramontare prova senza troppo successo a filtrare tra le nubi, intorno a noi la natura ha preso il sopravvento, e il cumulo di massi che una volta si chiamavano case è in buona parte ricoperto da un vestito verde. Incontriamo solo un gregge di pecore, due pastori e quattro cani. Nessuno di loro pare aver voglia di emettere alcun suono, forse in ossequio a quanto hanno intorno.
Completato il giro del nulla che resta di Onna, le ultime due foto. Con l’intento di ripartire da queste immagini: il ricordo di chi non c’è più, sancito dal memoriale alle vittime di quella notte, e la nuova Onna, che vive questa rinnovata vita di comunità nelle sue casette in legno, dono della Provincia Autonoma di Trento. Da qui si riparte e si va incontro al futuro, senza dimenticarsi il passato e quello che ha tolto.
A poco più di cinquanta metri da qui, si possono osservare dall’alto i quartieri maggiormente colpiti dai crolli ingenti avvenuti nel 2009. Quartieri costruiti sulle macerie del terremoto devastante che colpì la città nel 1703, e che come allora hanno dovuto pagare il loro tributo alla terra. Sulla destra rimango colpito da un palazzo nuovissimo: conto sei piani e non posso fare a meno di domandarmi se sia sensato costruire un edificio simile ora e in quella zona. Accanto a questo bel palazzo nuovo di zecca le macerie del 2009, sotto di esso le macerie del 1703. Forse sono io a non capire, ma continuo a guardarlo e mi spaventa a morte.
Continuiamo nel nostro viaggio, e Natalia e Max, i miei “ciceroni”, mi mostrano quello che rimane di un palazzo di cinque piani, in Via Campo di Fossa (i nomi delle vie a volte sembrano volerti parlare: Via Campo di Fossa, poco distante Via Cola d’Amatrice). Mi spiegano che quello è il palazzo che ha prodotto il maggior numero di vittime (27) all’interno di quella immane tragedia. Via Campo di Fossa 6B. Non ci sono colpevoli neppure per questa tragedia. Si parla di cemento inadeguato, di poco acciaio, di pericolosa pendenza. Ma non c’è qualcuno a cui dare la colpa. Una storia fin troppo vista, rivista, stravista.
Da qui, dopo aver visto la parte più dolorosa della storia, ci incamminiamo per tornare alle nostre auto. Seguiamo un altro percorso e ho modo di vedere altre cose significative: chiese in difficoltà, la bellissima Piazza del Duomo con la chiesa di Santa Maria del Suffragio che si nasconde timida dietro le impalcature, a celare il suo dolore. E a pochi passi dalle nostre macchine, le cucce per i cani randagi nel Parco del Castello. Un altro simbolo di L’Aquila, ma finalmente un simbolo positivo, una traccia di umanità.
Dopo quasi 10 km a piedi per il centro, la cosa che mi fa pensare e soffrire è rendermi conto che in tutta quella strada percorsa, in circa tre ore, non ho incrociato quasi nessuno, in questa domenica mattina e in un centro storico che prima di quelle 3:32 doveva essere pieno di vita. La vita pare essersene andata, e fatta eccezione per gli amici che sono con me in questa avventura, chi la fa da padrone e chi mi accompagna sono il silenzio e la desolazione. Il silenzio assordante di qualcosa che non c’è più e non puoi sapere se tornerà mai, la desolazione della morte che ha allungato le sue dita ossute su un’intera, meravigliosa città.
Dopo il pranzo chiedo ai miei compagni di portarmi a Onna. Dal 2009 il nome di questa piccola comunità mi è rimasto piantato in mente, e con esso la storia di un paesello che in qualche secondo vede diminuire di un sesto la propria popolazione e scomparire quasi totalmente la materia che lo componeva. Prima di inoltrarci in quella che una volta era Onna, ci soffermiamo sulle foto storiche scattate prima del sisma, appese all’esterno dei recinti del villaggio della Protezione Civile, che divide “Onna vecchia” da “Onna nuova”. Camminando per le vie della vecchia Onna, non riuscirò a riconoscere neppure un sasso di ciò che avevo visto pochi minuti prima in quei bellissimi scatti. Anche qui a dominare incontrastato è il silenzio: in alto un sole basso e pronto a tramontare prova senza troppo successo a filtrare tra le nubi, intorno a noi la natura ha preso il sopravvento, e il cumulo di massi che una volta si chiamavano case è in buona parte ricoperto da un vestito verde. Incontriamo solo un gregge di pecore, due pastori e quattro cani. Nessuno di loro pare aver voglia di emettere alcun suono, forse in ossequio a quanto hanno intorno.
Completato il giro del nulla che resta di Onna, le ultime due foto. Con l’intento di ripartire da queste immagini: il ricordo di chi non c’è più, sancito dal memoriale alle vittime di quella notte, e la nuova Onna, che vive questa rinnovata vita di comunità nelle sue casette in legno, dono della Provincia Autonoma di Trento. Da qui si riparte e si va incontro al futuro, senza dimenticarsi il passato e quello che ha tolto.