Identificato il virus dell’epatite B in una mummia di un bambino di 450 anni fa

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Identificato il virus dell’epatite B in una mummia di un bambino di 450 anni fa

Nel mondo più di 350 milioni di persone con infezioni croniche da epatite B. Uno studio internazionale al quale ha partecipato l’università di Pisa
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Per anni si è pensato che la causa della morte di un bambino vissuto circa 500 anni fa, il cui corpo fu imbalsamato e conservato nelle arche sepolcrali della Basilica di San Domenico Maggiore a Napoli, fosse il vaiolo, ma un team internazionale di ricercatori della McMaster University di Hamilton in Canada, diretto da Hendrik Poinar, e della Divisione di paleopatologia dell’università di Pisa, costituito da Gino Fornaciari e Valentina Giuffra, ha appurato che «il bambino era portatore del virus dell’epatite B», gettando così nuova luce su «un agente patogeno complesso e mortale, che uccide quasi un milione di persone ogni anno».

I risultati della ricerca sono stati resi noti nello studio “The paradox of HBV evolution as revealed from a 16th century mummy” pubblicato su Plos Pathogens.

I ricercatori italiani spiegano che «Nel corso delle missioni esplorative dell’Università di Pisa nella Basilica di San Domenico Maggiore a Napoli, dirette dal professor Gino Fornaciari negli anni ’80-’90, fu ritrovata la mummia intatta di un bambino di due anni indossante ancora la veste monastica dell’Ordine Domenicano, grazie alla quale i ricercatori hanno ottenuto il sequenziamento completo del genoma di un antico ceppo del virus dell’epatite B (HBV)». Fornaciari aggiunge: «Mentre in genere i virus si evolvono molto rapidamente, è stato visto che questo antico ceppo di HBV è mutato poco negli ultimi 450 anni. E’ stata infatti rilevata una stretta relazione tra i ceppi antichi e moderni di epatite B: entrambi mancano di quella che è nota come “struttura temporale”. In altre parole, non vi è alcun tasso misurabile di evoluzione per tutto il periodo di 450 anni, che separa il campione prelevato dalla piccola mummia da quelli moderni. La spiegazione potrebbe consistere nel fatto che essendo l’epatite B una malattia sessualmente trasmessa, e non tramite animali o insetti vettori, il virus non ha avuto la necessità di mutare almeno negli ultimi cinque secoli».

Alla Divisione di paleopatologia dell’ateneo pisano spiegano ancora che «L’eruzione vescicolo-pustolosa del bambino e le analisi immunologiche di trenta anni fa (allora gli studi sul DNA antico non erano ancora disponibili) avevano suggerito che il bambino fosse stato affetto da vaiolo. Utilizzando tecniche avanzate di mappatura genetica, i ricercatori hanno dimostrato chiaramente che il bambino era stato infettato dall’HBV. È interessante notare che i bimbi con infezione da epatite B possono sviluppare un’eruzione facciale, nota come sindrome di Gianotti-Crosti, che potrebbe essere stata identificata come vaiolo. Non può essere però esclusa anche una co-infezione».

Nel mondo ci sarebbero più di  350 milioni di persone con infezioni croniche da epatite B, mentre, a un certo punto della vita, risulta essere stata infettata circa un terzo della popolazione mondiale. Ecco perché, secondo i ricercatori, è importante studiare i virus antichi e uno degli autori della ricerca, il genetista evolutivo Hendrik Poinar, del McMaster Ancient Dna Center e investigatore principale all’Istituto Michael G. DeGroote per la ricerca sulle malattie infettive, conclude: «Più comprendiamo meglio il comportamento delle pandemie e delle epidemie passate, maggiore è la nostra comprensione di come i moderni agenti patogeni potrebbero diffondersi. E queste informazioni alla fine contribuiranno agli sforzi per controllare questi minuscoli killer».

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