Gli oceani stanno progressivamente soffocando
In poco più di mezzo secolo la superficie delle acque oceaniche quasi prive di ossigeno e incapaci di sostenere la vita è quadruplicata e il numero dei siti costieri colpiti dallo stesso problema è decuplicato. I responsabili di questo progressivo soffocamento sono il riscaldamento globale e l’inquinamento da sostanze nutrienti
www.lescienze.it
Dalla metà del secolo scorso, le acque di mare aperto prive di ossigeno sono più che quadruplicate, mentre nelle regioni costiere i siti in cui i corpi idrici hanno un tenore di ossigeno troppo basso per sostenere la vita marina sono più che decuplicati, passando da meno di 50 a più di 500. Secondo i ricercatori della collaborazione GO2NE (Global Ocean Oxygen Network), istituita nel 2016 dalla Intergovernmental Oceanographic Commission delle Nazioni Unite, la tendenza alla riduzione dei livelli di ossigeno marino è legata a più fattori, fra i quali spiccano per importanza il riscaldamento climatico e l’inquinamento da sostanze nutrienti delle acque.
“Il declino dell’ossigeno oceanico è uno degli effetti più gravi delle attività umane sull’ambiente”, spiega Denise Breitburg, dello Smithsonian Environmental Research Center e prima autrice dell’articolo di “Science” in cui è descritta la drammatica situazione.
Nelle cosiddette “zone morte”, in cui si ha una concentrazione di ossigeno inferiore ai due milligrammi per litro, buona parte degli animali non è in grado di vivere. I ricercatori stimano che siano oltre 4,5 milioni di chilometri quadrati di acque oceaniche che non raggiungono quel livello minimale di ossigeno nei primi 200 metri di profondità. In genere i pesci evitano queste zone, ma così i loro habitat si restringono e diventano più vulnerabili ai predatori e alla pesca. Questo fenomeno potrebbe tradursi in un apparente vantaggio per l’industria ittica sul breve periodo, ma in una forte penalizzazione, se non in una catastrofe (soprattutto per i piccoli pescatori) sul medio-lungo termine.
Ma anche diminuzioni di ossigeno più contenute possono frenare la crescita degli animali, ostacolarne la riproduzione e favorire l’insorgenza di malattie, spiegano gli autori. Inoltre, i fenomeni di ipossia, ovvero scarsità di ossigeno, in acqua possono innescare il rilascio di sostanze chimiche pericolose come il protossido di azoto, un gas serra fino a 300 volte più potente dell’anidride carbonica, e l’acido solfidrico, dagli effetti tossici.
Per quanto riguarda le aree di mare aperto il principale responsabile dell’impoverimento di ossigeno è il cambiamento climatico: il riscaldamento delle acque superficiali da un lato rende più difficile all’ossigeno raggiungere gli strati marini più in profondità, dall’altro riduce la capacità di trattenere l’ossigeno disciolto. Nelle acque costiere, invece, l’eccessivo inquinamento da sostanze nutritive provenienti dalla terraferma crea fioriture algali, che drenano ossigeno via via che muoiono e si decompongono. In acque più calde, inoltre, il fabbisogno di ossigeno degli animali aumenta.
Secondo gli autori dello studio, per evitare che la situazione peggiori ulteriormente fino a livelli insostenibili sono necessari tre tipi di interventi specifici, da affiancare alla più generale lotta all’emissione dei gas serra. Innanzitutto è necessario proteggere la vita marina vulnerabile, riducendo lo stress ambientale legato alla pesca, per esempio con la creazione di aree marine protette o di zone di divieto di cattura nelle zone sfruttate dagli animali per sfuggire al basso tenore di ossigeno, o in cui transitano per allontanarsi da esse. Bisogna poi rafforzare il monitoraggio delle aree poco ossigenate, aumentando numero e frequenza dei controlli, in modo da tracciarne l’evoluzione e gli eventuali spostamenti. Infine è necessario ampliare e migliorare il trattamento delle acque reflue, in particolare quelle provenienti dall’agricoltura.