Il vulcanologo De Natale: “per i Campi Flegrei sarebbe necessaria una evacuazione progressiva come in Giappone”

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Il vulcanologo De Natale: “per i Campi Flegrei sarebbe necessaria una evacuazione progressiva come in Giappone”

Lo ha dichiarato sul suo profilo facebook: “non esistono complotti atti a nascondere qualcosa, in quanto il sistema di una caldera è estremamente difficle e complesso da analizzare”
corrieredelmezzogiorno.corriere.it

«Evacuazioni progressive sul modello giapponese». Giuseppe De Natale, vulcanologo, già direttore dell’Osservatorio Vesuviano, esprime su Facebook la sua opinione su come affrontare la crisi nei Campi Flegrei. Ovviamente non si tratta di una posizione ufficiale delle autorità perché — ribadiamolo — siamo ancora a livello giallo (attenzione) e al momento non ci sono ipotesi ufficiali del genere. Tuttavia, la turbolenza dell’Area flegrea e la possibilità di eruzioni freatiche improvvise nelle aree Solfatara e via Pisciarelli, inducono gli studiosi a interrogarsi sulla strategia migliore per il futuro.


Quello che De Natale ritiene utile dal punto di vista scientifico è scritto su un lungo post pubblicato sul suo profilo facebook. Scrive De Natale: «Si parla molto dei Piani di emergenza e della crisi in atto ai Campi Flegrei. Come opinione personale, dettata dalla mia esperienza lavorativa, vorrei chiarire alcune cose al riguardo. Prima di tutto, spesso alcuni pensano che si vogliano tenere segreti i risultati delle ricerche scientifiche; come se gli specialisti del settore sapessero tutto, ma per vari motivi non volessero diffondere questa conoscenza alla popolazione. Purtroppo non è così; sistemi estremamente complessi e non riproducibili in condizioni controllate sono molto difficili da interpretare in maniera deterministica. In parole povere — aggiunge —, è molto difficile prevedere l’evoluzione di una crisi vulcanica, e sicuramente non è possibile farlo con certezza. Quando si tratta poi di caldere, che sono i vulcani meno conosciuti, l’incertezza è ancora più marcata. Per quanto riguarda quindi i piani di emergenza, questi devono naturalmente tener conto di queste incertezze intrinseche. Vorrei anche sgombrare il campo da ipotesi ‘complottiste’ di ogni genere: tutti gli enti coinvolti, in primis la Protezione civile a tutti i livelli (nazionale, regionale, locale) fanno del loro meglio per affrontare questo problema molto arduo».

A giudizio dello studioso «il problema più grande, però, è che le nostre zone rosse contengono 700-800 mila persone. Questo vuol dire che un’evacuazione comporta dei disagi infiniti per la popolazione e dei costi economici stratosferici. In poche parole, la decisione politica di evacuare, con costi e disagi immensi, deve essere presa pur sapendo che c’è un’altissima probabilità (probabilmente anche molto maggiore di quella contraria) che l’eruzione non avvenga. Questo è già successo, con l’evacuazione di Pozzuoli negli anni ‘80. In queste condizioni — argomenta —, una tale decisione ha un peso politico enorme, ed è lecito chiedersi se chi dovrà prenderla non si lascerà ‘tentare’ dall’attendere risposte più certe (finché i segnali precursori aumentino ancora in maniera cospicua, o rientrino); con il rischio ovviamente che l’eruzione avvenga all’improvviso prima che si riesca ad evacuare». Come si quadra il cerchio?


«Un approccio diverso — scrive ancora De Natale —, e a mio avviso interessante, ci fu spiegato dal professor Masato Iguchi, Direttore dell’Osservatorio del Sakurajima, quando visitò l’Osservatorio Vesuviano, invitato da me che ne ero il direttore, nell’ottobre 2015. Il Sakurajima è un vulcano vicinissimo alla città di Kagoshima, nel Sud del Giappone, che vista dall’alto con il suo vulcano è incredibilmente somigliante a Napoli con il Vesuvio. Kagoshima con i suoi dintorni contiene circa 900.000 abitanti, esposti al rischio vulcanico del Sakurajima, parte di una grande caldera di nome Aira e vicina ad altre più piccole (analoga quindi lla nostra situazione tra Vesuvio, Campi Flegrei ed Ischia)».

Cosa è stato deciso in Giappone? «I piani di emergenza da loro prevedevano una serie di livelli (più o meno come i nostri) in cui però, partendo da un certo livello, si iniziava ad evacuare la popolazione in un piccolo raggio intorno alla probabile bocca eruttiva; e ad ogni livello successivo, aumentava progressivamente il raggio dell’area da evacuare. In questo modo, si rende l’evacuazione progressiva, a partire da un certo livello ed ampliando la zona evacuata man mano che i segnali precursori divengono più chiari e più critici. Forse, un tale approccio potrebbe essere ancor più appropriato nelle nostre aree. Insomma, credo che questo modello sia da studiare, ed eventualmente in futuro adottare anche da noi».
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