Simulazione numerica dell’altezza massima dell’onda di tsunami in mare aperto. Le linee bianche rappresentano la posizione del fronte dell’onda di tsunami a intervalli di 1 ora (Fonte: Ingv).
Lo tsunami si propaga per tutto l’Oceano Indiano e dopo circa 2 ore raggiunge le coste dello Sri Lanka (41.000 vittime), dell’India (10.700 vittime) e della Thailandia (5.300 vittime). Dopo 3 ore e mezzo arriva alle Maldive, dopo 6 ore alle Seychelles e dopo meno di 8 ore si abbatte sulle coste africane in Somalia: anche qui, a più di 5.000 chilometri di distanza dall’epicentro, si conteranno centinaia di vittime. Il bilancio finale sarà di 230.000 morti e più di 22.000 dispersi.
Il terremoto
Questo evento è una pietra miliare della sismologia moderna, sia per la qualità e la varietà dei dati raccolti che per le tecniche di analisi utilizzate. La magnitudo stimata Mw 9.15 colloca questo terremoto al terzo posto tra i più grandi mai registrati in epoca strumentale (dall’inizio del ‘900), dopo il Mw 9.5 del Cile (1960) e il Mw 9.2 dell’Alaska (1964). Nelle settimane successive all’evento, gli studi rivelarono le caratteristiche eccezionali di questo terremoto: mai prima di allora gli strumenti avevano registrato la rottura di una faglia lunga più di 1200 km, con una durata complessiva del processo di fagliazione di 10 minuti. E per di più in una zona che, per le sue caratteristiche tettoniche, non era ritenuta fino ad allora in grado di dare luogo a terremoti di queste dimensioni. I dati GPS mostrarono che la rottura cosismica di questa gigantesca faglia aveva prodotto uno spostamento orizzontale permanente dell’Indonesia settentrionale rispetto alla placca indiana di alcuni metri in direzione sud-ovest.
Questi dati, assieme ai sismogrammi e ai mareogrammi registrati dalle reti mondiali, permettono di determinare la distribuzione dello spostamento lungo i 1200 km della faglia: in particolare si stima che il movimento delle due placche ha raggiunto i 30 metri in due aree grandi quanto la Toscana.
Modello della sorgente del terremoto di Sumatra 2004, ricostruito tramite inversione di dati geodetici e di tsunami. I rettangoli rappresentano le varie porzioni della faglia e i colori indicano la dislocazione cumulata su ognuno di essi: si notino in particolare le porzioni di colore nero, sulle quali è stata stimata una dislocazione di circa 30 metri. Le frecce nere indicano la direzione e la velocità del fronte di rottura sui vari segmenti di faglia: con queste velocità della rottura, il tempo impiegato per rompere tutti i 1200 km di faglia è di circa 10 minuti (fonte: Lorito et al., 2010, J. Geophys. Res.).
Lo tsunami
Le immagini dal satellite e le misure effettuate sul posto mostrano che nella provincia indonesiana di Banda Aceh, maggiormente colpita dallo tsunami, l’inondazione ha raggiunto una quota topografica (runup) di circa 35 metri, penetrando nell’entroterra per più di 4 chilometri.
Immagine satellitare di Banda Aceh dopo lo tsunami, la linea gialla indica la linea di costa prima dello tsunami; la linea rossa identifica l’estensione dell’inondazione. Le frecce nere indicano la direzione di ingressione dell’inondazione. I numeri neri rappresentano le misure dell’altezza della colonna d’acqua durante l’inondazione (fonte: Borrero, J.C., 2005, Science, 308, 5728 p.1596).
Lungo le coste della Thailandia, a est della faglia, il mare si è dapprima ritirato per circa 20 minuti lasciando a secco alcune centinaia di metri di spiaggia, per poi tornare indietro e inondare la costa con altezze di runup fino a 18 metri.
Per la prima volta gli altimetri satellitari (missioni Jason e Topex), normalmente utilizzati per misurare le variazioni del livello degli oceani in ambito oceanografico e climatologico, hanno misurato direttamente il campo d’onda dello tsunami durante la sua propagazione in mare aperto, rivelando un’altezza dell’onda principale (dal cavo alla cresta) di circa 1.2 metri.
Nella parte superiore della figura è mostrata la simulazione numerica dello tsunami dopo 2 ore di propagazione; la linea nera rappresenta il tracciato dell’orbita del satellite Jason. Nella parte in basso è mostrata l’anomalia dell’altezza della superficie dell’oceano sul tratto mostrato sopra, dovuta al passaggio dello tsunami durante la sua propagazione (fonte: NOAA).
Il rischio tsunami nel Mediterraneo
L’Oceano Pacifico è senz’altro il bacino con la più alta pericolosità da tsunami, testimoniata dalla frequenza e dalle dimensioni degli eventi avvenuti nelle ultime decine di anni: basti pensare all’ultimo catastrofico tsunami del 11 marzo 2011 in Giappone. Tuttavia anche il Mare Mediterraneo non è esente da questo tipo di rischio: dal catalogo NOAA degli tsunami avvenuti a livello mondiale tra il 1650 A.C. e il 2008, risulta che il 14% di questi ha interessato il Mar Mediterraneo, mentre il 74% ha colpito l’Oceano Pacifico. Solo per citarne alcuni possiamo ricordare gli tsunami del 365 D.C. (Creta, Grecia), del 1693 (Sicilia Orientale), del 1908 (Messina) e il più recente del 2003 (Boumerdes, Algeria).
Per fare fronte a questo pericolo, negli ultimi due anni l’Ingv ha costruito presso la propria sede di Roma il Centro di Allerta Tsunami (CAT), entrato in fase pre-operativa dal 1° Ottobre 2014.
La Sala di Monitoraggio Sismico dell’INGV a Roma con il Centro Allerta Tsunami.
Presso il CAT, presidiato tutti i giorni dell’anno per 24 ore al giorno da ricercatori e tecnici Ingv, vengono analizzati in tempo reale i dati di tutti i forti terremoti nel mondo e in particolare nel Mediterraneo. Grazie alla collaborazione tra Ingv e Ispra, il CAT riceve e analizza in tempo reale i dati della Rete Mareografica Nazionale e delle altre reti mareografiche mondiali. Nel Mediterraneo non ci sono ancora le boe che consentono di riconoscere in tempo reale il passaggio di un’onda di tsunami. Come mostrato in questo video, nel Pacifico e negli altri oceani la scienza e la tecnologia hanno fatto enormi passi avanti in questi dieci anni, aumentando decisamente la capacità di individuare in tempi rapidi gli tsunami e prevederne gli effetti.
a cura del CAT Group-INGV.