Quante strategie diverse esistono per cercare la vita extraterrestre?
La presenza di acqua liquida è considerata un requisito fondamentale per trovare pianeti extrasolari in grado di ospitare la vita. Ma secondo recenti ricerche, troppa acqua potrebbe essere controproducente, perché, per esempio, sarebbe associata alla mancanza di nutrienti fondamentali, come il fosforo. Gli scienziati stanno quindi discutendo su come condurre le prossime ricerche
di Alexandra Witze/Nature
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Steve Desch può prevedere il futuro della ricerca sui pianeti extrasolari, e non è roseo. Immaginate, spiega, che gli astronomi utilizzino il prossimo telescopio spaziale James Webb della NASA per analizzare l’atmosfera di un pianeta di massa simile a quella terrestre alla ricerca di segni di vita. Poi immaginate di seguire le tracce dell’ossigeno atmosferico per anni, e infine rendervi conto che si tratta di falsi positivi prodotti dall’attività geologica anziché da esseri viventi.
Desch, astrofisico dell’Arizona State University a Tempe, e altri cacciatori di pianeti, si sono incontrati dal 13 al 17 novembre a Laramie, nel Wyoming, per individuare modi migliori per esplorare la vita oltre la Terra. Molti hanno iniziato a sostenere che la definizione standard di abitabilità – acqua liquida sulla superficie di un pianeta – non è il fattore che dovrebbe guidare l’esplorazione dei pianeti extrasolari.
Invece, dicono i ricercatori, il settore dovrebbe concentrarsi sulle probabilità di scoprire la vita aliena, se esiste. “I pianeti possono essere abitabili e non avere vita”, ha detto Desch ai ricercatori durante la riunione.
I pianeti acquatici possono essere tra i posti peggiori dove cercare esseri viventi. Uno studio presentato al meeting mostra che un pianeta coperto di oceani potrebbe essere privo di fosforo, una sostanza nutritiva senza la quale la vita di tipo terrestre non può prosperare. Altri lavori hanno concluso che un pianeta sommerso da acque ancora più profonde sarebbe geologicamente morto, privo dei processi planetari che alimentano la vita sulla Terra.
“Abitabilità non è solo trovare tracce di una forma di vita aliena che fa un respiro profondo”, dice Elizabeth Tasker, astronoma e ricercatrice di esopianeti presso l’Istituto per lo spazio e le scienze aeronautiche
della Japan Aerospace Exploration di Sagamihara. Dipende anche da come la geologia e la chimica di un pianeta s’interconnettono per creare un ambiente accogliente oppure ostile, afferma, complicando la ricerca della vita extraterrestre.
Acqua e terra
Gli astronomi hanno catalogato migliaia di esopianeti, più di una dozzina dei quali sono potenzialmente abitabili. Il più recente, annunciato il 15 novembre, è Ross 128b, distante dalla Terra 3,4 parsec (11 anni luce). Somiglia all’oggetto a cui i ricercatori hanno dato la caccia per decenni: un pianeta di dimensioni terrestri che orbita intorno a una stella vicina, probabilmente alla giusta distanza da consentire la presenza di acqua liquida.
La maggior parte di questi pianeti ha alcune qualità che impediscono loro di essere autentici gemelli della Terra: Ross 128b orbita intorno a una fredda stella nana invece che a una stella simile al Sole, per esempio. Ma Tasker dice che i soliti parametri usati dagli scienziati per valutare quanto è abitabile un pianeta, come la sua posizione rispetto alla sua stella o quanto assomigli alla Terra, sono fuorvianti.
Per capire come dividersi il prezioso tempo di osservazione, alcuni scienziati suggeriscono di prendere di mira i pianeti che, come la Terra, si ritiene abbiano un mix di oceani e terraferma. Questo perché i pianeti che hanno solo acqua sulla loro superficie potrebbero non avere nutrienti cruciali disponibili in forme che possano sostenere la vita, ammesso che si basi sulla stessa chimica della vita sulla Terra.
“Siamo vittime di questo stereotipo: se abbiamo oceani, abbiamo vita”, dice Tessa Fisher, esperta di ecologia microbiologica dell’Arizona State University. Ma il suo recente lavoro contraddice questa idea. Fisher e colleghi hanno studiato che cosa sarebbe successo su un “pianeta acquatico” con una superficie completamente coperta o quasi da una quantità di acqua sufficiente a riempire gli oceani della Terra per cinque volte.
Sulla Terra, l’acqua piovana che lambisce le rocce dilava fosforo e altri nutrienti verso gli oceani. Ma senza terre emerse, il fosforo non ha un modo per arricchire l’acqua, ha riferito Fisher alla riunione di Laramie. Non ci sarebbero organismi oceanici, come il plancton, in grado di riempire di ossigeno l’atmosfera del pianeta, il che renderebbe difficile trovare la vita in quel tipo di mondo.
Una distesa umida
I pianeti più umidi avrebbero anche un altro tipo di problemi, afferma Cayman Unterborn, geologo dell’Arizona State University, che ha analizzato gli effetti planetari della presenza di una quantità di acqua pari a 50 oceani terrestri. Scoprendo che peso di tutto quel liquido eserciterebbe così tanta pressione sul fondo del mare che l’interno del pianeta non sarebbe affatto fuso.
I pianeti necessitano almeno in parte di un interno fuso per sostenere l’attività geologica, come nel caso della tettonica a placche, e per fornire l’ambiente geochimico giusto per la vita. In questo caso, dice Unterborn, “troppa acqua significa troppo di una cosa buona”.
I mondi ricchi di acqua si formano facilmente. È probabile che molti pianeti siano nati lontano dalla loro stella, dice Tasker, in condizioni di bassa temperatura, dove potrebbero essersi formati per coalescenza da frammenti di roccia e molto ghiaccio.
Se un simile pianeta fosse poi migrato più vicino alla sua stella, il ghiaccio si sarebbe sciolto, coprendone la superficie con grandi oceani. Si ritiene che alcuni dei sette piccoli pianeti in orbita attorno alla stella TRAPPIST-1, a 12,6 parsec (41 anni luce) dalla Terra, abbiano una quantità considerevole di acqua sulla loro superficie.
Invece di studiare automaticamente questi mondi acquatici, dice Tasker, gli astronomi devono riflettere più profondamente su come i pianeti si sono evoluti nel tempo. “Dobbiamo stare attenti a scegliere il pianeta giusto”, dice.
Il lancio del telescopio spaziale James Webb è previsto per il 2019. Una volta nello spazio, il telescopio passerà gran parte del suo tempo a studiare mondi potenzialmente simili alla Terra. I ricercatori hanno già iniziato ad analizzare in che modo l’ossigeno, il metano o altre “biofirme” gassose nelle atmosfere di pianeti extrasolari potrebbero apparire alla vista del telescopio.
Verso la fine del meeting di Laramie, i partecipanti si sono espressi sulla probabilità di trovare prove di vita su un pianeta extrasolare entro il 2040. Non sono stati ottimisti: 47 hanno detto di no e 29 hanno di sì.
Però molti di più erano disposti a scommettere che si potrà scoprire la vita su un altro pianeta negli anni 2050 o 2060. Presumibilmente, è un tempo sufficiente per risolvere il dibattito su quali sono i mondi migliori da studiare.
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su Nature il 20 novembre 2017. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)