L’acidità degli oceani sta mutando velocemente
Si calcola che dall’inizio dell’era industriale, il valore medio del pH delle acque superficiali degli oceani sia sceso dal valore 8,2 a 8,1. Sebbene la diminuzione di un punto decimale possa sembrare poca cosa, in realtà, corrisponde a un aumento dell’acidità di circa il 26% per cui c’è di che essere preoccupati
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Il valore medio del pH degli oceani è un fattore cruciale per la biologia marina perché il mantenimento di molte forme di vita acquatica dipende strettamente da quanto è acido l’habitat marino. Basti pensare, ad esempio, a tutti quegli organismi come i coralli, i crostacei o i molluschi, che usano il carbonato di calcio presente nell’acqua per costruire il proprio corpo e che, con acque più acide, faranno molta più fatica a svilupparsi. Si calcola che dall’inizio dell’era industriale, il valore medio del pH delle acque superficiali degli oceani sia sceso dal valore 8,2 a 8,1. Sebbene la diminuzione di un punto decimale possa sembrare poca cosa, in realtà, corrisponde a un aumento dell’acidità di circa il 26% per cui c’è di che essere preoccupati.
Ne è convinto Ulf Riebesell del GEOMAR Helmholtz Centre for Ocean Research di Kiel, un autorità a livello mondiale su questo argomento, a capo del BIOACID Project e lead author del report che sarà presentato a Bonn.
Secondo Riebesell l’acidificazione influenza, direttamente o indirettamente, tutte le forme di vita marine, anche se in diversa misura.
Ad esempio, i coralli che vivono nelle acque calde sono generalmente più sensibili di quelli delle acque fredde e molluschi e lumache sono più sensibili dei crostacei. Uno dei risultati più significativi dello studio, riguarda il diverso peso che l’acidificazione esercita sulle forme di vita in base alla loro età e il dato accertato è che gli organismi più giovani risentono molto di più l’effetto dell’abbassamento del pH, rispetto agli esemplari adulti. In ogni caso, quello che emerge è un quadro non certo tranquillizzante perché, se è vero che non tutte le forme di vita sono colpite negativamente dall’acidificazione, resta il fatto che tutte ne sono coinvolte, perché ad essere modificati sono interi habitat e la catena alimentare per cui, se anche una specie non fosse danneggiata direttamente o, addirittura, beneficiasse dell’aumento di acidità, sarebbe ugualmente a rischio perché, magari, l’acidificazione ridurrebbe gli esemplari di un’altra specie di cui la prima si nutre. Continuando su questa strada, gli effetti negativi finirebbero inevitabilmente per propagarsi fino agli esseri umani, mettendo a rischio molte delle risorse del mare cui attingiamo.
Come altro risultato rilevante, BIOACID ha mostrato che i cambiamenti indotti dall’acidificazione sono aggravati, oltre che dai cambiamenti climatici, da molti altri fattori di origine antropica come l’inquinamento, l’urbanizzazione delle coste, gli scarichi di origine agricola e lo sfruttamento eccessivo della pesca. D’altra parte, anche il fenomeno stesso dell’acidificazione è direttamente riconducibile alle attività umane, perché è il frutto dell’uso delle fonti energetiche fossili, la cui combustione produce enormi quantità di CO2 che, in parte, finisce per dissolversi nelle acque marine, producendo acido carbonico che, a sua volta, determina l’abbassamento del pH medio.
Ogni anno gli oceani assorbono circa un quarto di tutta l’anidride carbonica prodotta dalle attività umane e si stima che questo “servizio”, offerto dagli oceani all’economia mondiale, valga circa 86 miliardi di dollari l’anno. È ovvio che non si possa continuare ad andare avanti così perché, dall’inizio dell’era industriale, l’acidità dei mari è già aumentata di quasi il 30% e se il livello delle emissioni di CO2 dovesse continuare a crescere, assisteremo a un aumento dell’acidità ancora più veloce. Anzi, per quanto le attuali conoscenze permettano di sapere, il più veloce mai avvenuto da 250 milioni di anni a questa parte!
PROVARE A INVERTIRE LA TENDENZA A questo punto la domanda è: “Cosa si può fare per arginare il problema”? La sfida, ovviamente, non è semplice e richiede di raggiungere una serie di obiettivi, a cominciare con il riconoscere che l’acidificazione degli oceani è conseguenza diretta della crescente concentrazione di CO2 atmosferica, perché il problema è ancora sottostimato.
L’attuale concentrazione di CO2 atmosferica (che proprio a maggio di quest’anno ha superato le 410 ppm) sta già provocando i primi effetti negativi, ma gli ecosistemi marini potrebbero essere gravemente danneggiati qualora superasse le 450 ppm. Ridurre significativamente la concentrazione di CO2 antropogenica nell’atmosfera, sembra l’unica soluzione praticabile per attenuare l’acidificazione degli oceani. Ciò vuol dire intraprendere tutte le azioni possibili in tal senso e sostenere gli sforzi in atto per la riduzione globale dell’emissione di anidride carbonica, perché il termine significativamente significa ridurre, entro il 2050, le emissioni a un valore pari almeno alla metà dei livelli registrati nel 1990 e, da lì in poi, continuare a scendere progressivamente. E se già questo può apparire un obiettivo, quanto meno, difficile da raggiungere, bisogna tener conto che, da solo, non è nemmeno sufficiente a ottenere i risultati sperati. Un’azione a livello globale, infatti, non è sufficiente se non è accompagnata, a livello locale o regionale, dall’eliminazione di tutti quei fattori di stress per le acque, come l’eccesso di pesca, lo sversamento di sostanze inquinanti o nutrienti in eccesso e l’eutrofizzazione, che hanno l’effetto di amplificare l’impatto della CO2.
UNA SITUAZIONE DA MONITORARE
Un elemento che fa ben sperare è che, almeno, è stata riconosciuta l’esistenza del problema “acidificazione dei mari” a livello globale e che negli ultimi decenni è aumentata enormemente l’attenzione della comunità scientifica verso il problema, basti guardare il numero delle pubblicazioni dedicate ogni anno a questo argomento.
In ogni caso la situazione va tenuta costantemente sotto controllo e sostenuta ai massimi livelli internazionali, come accaduto tra il 2008 e il 2012 con il progetto dell’Unione Europea EPOCA (European Project on OCean Acidification).
Oltre a quello europeo altri studi sono in corso o si sono conclusi in molte aree del mondo. L’Australia, ad esempio, è impegnata a studiare la situazione nell’area della Grande Barriera Corallina, in Papua Nuova Guinea e negli oceani meridionali, verso l’Antartide. La Cina, attraverso il Ministero della Scienza e Tecnologia e la National Science Foundation of China, ha finanziato un progetto per studiare l’acidificazione dei mari cinesi e l’impatto delle alte concentrazioni di CO2. Giappone, Korea del Sud, Regno Unito, Stati Uniti (almeno sotto la presidenza Obama), il Principato di Monaco e la Germania, hanno in corso programmi e ricerche simili.
Proprio lo studio tedesco BIOACID sembra rappresentare un capitolo di enorme importanza nello studio del problema perché, come rilevato da Carol Turley, esperto di acidificazione dei Plymouth Marine Labs nel Regno Unito, ha fornito enormi conoscenze sull’impatto che l’acidificazione può avere su una vasta gamma di forme di vita marine, dai microbi ai pesci. Inoltre ha indagato come l’acidificazione può interagire con gli altri fattori di stress quali il riscaldamento delle acque o l’inquinamento, che mettono a rischio l’ecosistema marino e possono ricadere sull’intera società umana.
Secondo Turley, questi risultati sono tali che, nella prossima conferenza di novembre, gli oceani e i problemi che minacciano i loro delicati ecosistemi, non potranno più essere ignorati. Anche perché, crediamo di poter aggiungere noi, il tempo per intervenire seriamente sta per scadere.
Fonte: GEOMAR Kiel