Galileo Galilei, l’italiano che rivoluzionò la scienza, e che spesso viene usato a sproposito

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Galileo Galilei, l’italiano che rivoluzionò la scienza, e che spesso viene usato a sproposito

La storia di Galileo Galilei: le sue scoperte rivoluzionarie e il suo rapporto – difficile – con il potere
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Il ritratto di Galileo Galileo (alla Galleria degli Uffizi).|Wikimedia Commons

Nato a Pisa il 15 febbraio 1564 da famiglia di antiche origini ma mezzi modesti, Galileo Galilei era il maggiore dei sette figli di Vincenzo Galilei e Giulia Ammannati, il padre fiorentino della borghesia decaduta, la madre con due porpore cardinalizie nell’albero genealogico.

Vincenzo era un musicista di valore, ma si guadagnava la vita lavorando a bottega dalla famiglia della moglie, fino a quando a Firenze divenne musico di corte. Galileo fu mandato al monastero di Vallombrosa a studiare greco, latino e logica. Lì fu attratto dalla vita monastica e diventò novizio.

Vincenzo, contrario a questa svolta mistica che non avrebbe fruttato denari, gli cambiò scuola e, a 17 anni, lo iscrisse al collegio La sapienza di Pisa per garantirgli una carriera nella medicina. Ma anche qui Galileo scelse di testa sua, preferendo la matematica all’anatomia. Amava la dialettica ed era un attaccabrighe, cosa che rese inevitabile lo scontro con la monolitica scienza aristotelica.

Per quasi due millenni nessuno si era azzardato a discutere il pensiero di Aristotele (IV secolo a. C.) secondo cui il moto dei corpi è determinato dalla loro natura, per cui un oggetto pesante cade per esempio più velocemente di uno leggero, teoria che sembra ovvia osservando una pietra e una piuma. Questo universitario toscano alquanto superbo trovò invece il modo di confutarla. E non fu l’unica scoperta del giovane Galileo: si trovava nel Duomo di Pisa quando rimase ipnotizzato dall’oscillazione di un lampadario. Secondo la leggenda, usando il suo polso come cronometro determinò che il periodo di oscillazione del pendolo non dipende dall’ampiezza.

Alla fine Galileo chiese al padre il permesso di cambiare corso di studi. “C’è molto lavoro per un medico e poco per un matematico” gli rispose Vincenzo. Così, a 21 anni, Galileo abbandonò l’università senza laurearsi. Tornato a Firenze, si mantenne scrivendo articoli e dando lezioni. Un suo saggio sull’idrostatica richiamò l’attenzione del marchese Guidobaldo del Monte, autore del Mechanicorum liber, considerato allora il miglior trattato di statica.

Ci volle poco perché il granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici lo prendesse sotto la sua protezione.

Nel 1589 gli fu offerto un posto di professore di matematica all’Università di Pisa; ma restava un problema, che lo accompagnerà tutta la vita: l’affannosa ricerca di denaro. Era sul gradino più basso della carriera universitaria, e per sopravvivere dovette prendere a pensione qualche ricco allievo. Intanto a Pisa cresceva la sua leggenda: ancora oggi lo immaginiamo salire le scale della torre pendente per far cadere due palle di cannone di peso diverso e contraddire il totem aristotelico. In realtà l’esperimento lo fece un olandese, ma fu Galileo a teorizzarlo: due corpi qualsiasi che cadono nel vuoto, cioè senza l’attrito dell’aria, toccano terra contemporaneamente.

Nel 1591 morì il padre, e su Galileo piombò la responsabilità di provvedere a fratelli e sorelle. All’Università di Padova, nella Repubblica veneta, gli offrirono un incarico meglio pagato. Lui intanto affermava nelle lettere al collega Keplero di aderire alla teoria copernicana, ma di non essersi azzardato a pubblicare le sue tesi per timore di subire lo stesso destino del maestro Copernico, oggetto di scherno nella comunità scientifica. Galileo era irruente, ma non stupido. Keplero lo esortò invece ad andare avanti. La cosa più triste – e che dimostra la debolezza dell’uomo – fu che in seguito Galileo ignorò del tutto Keplero e le sue lettere. Albert

Einstein, secoli dopo, dirà quanto lo aveva addolorato sapere che “Galileo non riconobbe il valore di Keplero”.

A Padova trascorse i migliori anni della sua vita, tra i salotti della cultura e il desco della nobiltà locale. Gli mancava solo il modo per diventare ricco. Ci provò con un termometro, ci riuscì inventando un compasso geometrico militare, utilizzato in artiglieria. In questo periodo si innamorò di Marina Gamba, donna di una classe sociale inferiore. Non la sposò, ma ebbe da lei due figlie, che costrinse a farsi suore, e un figlio, Vincenzo, che Galileo riconobbe per portare avanti il nome della casata. Mentre fama e redditi crescevano, la sua salute iniziò però a deteriorarsi già a partire dal 1603.

Nel luglio del 1609 Galileo sentì parlare a Venezia di un’invenzione olandese che serviva per osservare gli oggetti da lontano. In un giorno appena ne costruì un prototipo che mostrò all’entusiasta Senato veneziano. I notabili della Serenissima gli offrirono un posto a vita a Padova, remunerato con mille fiorini all’anno. Lì fabbricò varie lenti e diversi “cannoni occhiali”, come si chiamavano allora, che utilizzò per osservare il cielo scoprendo, tra il 1609 e il 1610, i quattro maggiori satelliti di Giove, la natura rocciosa e irregolare del suolo lunare, le fasi di Venere e le macchie solari.

Il telescopio che accrebbe la fama dello scienziato e i vari sistemi cosmologici a confronto: da Tolomeo fino a Copernico.

 Il libro dove descrisse le sue osservazioni, il Sidereus nuncius (Messaggero celeste), divenne un best-seller la cui fama arrivò persino in Cina. Ma non era ancora il numero uno dell’astronomia. Keplero era considerato il miglior astronomo del mondo e la critica entusiastica che il tedesco fece del Sidereus contribuì all’affermazione del telescopio in seno alla comunità scientifica internazionale. Ma Galileo mal digeriva un collega così stimato, e quando Keplero lo pregò di inviargli una lente di buona qualità, Galileo lo ignorò. Anche perché affari più urgenti richiamavano la sua attenzione: entrare alla corte dei Medici era uno di questi. Tanto brigò che riuscì, nel 1610, a diventare professore a Pisa e filosofo e matematico del granduca. Per ingraziarsi la committenza, Galileo dedicò ai Medici i satelliti di Giove. Negli anni seguenti si impegnò a perfezionare e ad applicare il suo sistema di investigazione sperimentale a differenti campi di ricerca. Era nato il metodo scientifico. Ma la fama lo indusse a un errore: iniziò a difendere il sistema copernicano; e gli invidiosi insorsero.

Nel 1615 il frate domenicano Tommaso Caccini andò a Roma per denunciare al Santo Uffizio la pericolosità delle teorie di Galileo. Fra le prove, la copia di una lettera dello stesso scienziato con due frasi giudicate incriminanti in quanto contraddicevano le Sacre scritture: «La Terra non è il centro del mondo, né immobile, ma da sé si muove» e «il Sole è […] del tutto immobile». La denuncia venne raccolta dal potente cardinal Bellarmino, che convinse papa Paolo V a costituire un tribunale per stabilire quanto fosse eretica la difesa delle tesi di Copernico portata avanti dallo scienziato pisano.

Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 1616, dunque esattamente 400 anni fa, iniziò il primo processo a Galileo, che arrivò a Roma sentendosi forte dell’appoggio – timoroso in verità – del granduca Cosimo II de’ Medici, ma dovette ben presto scendere a più miti consigli. Il pericolo era scampato, ma una misteriosa manina introdusse nel verbale del processo un atto dove si obbligava lo scienziato a non insegnare le teorie di Copernico. Carta di cui non si seppe nulla fino al 1633, quando si aprì il secondo processo a Galileo in seguito alla pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Lo scienziato aveva inviato il suo manoscritto a Roma alla fine del 1629 per ottenere il permesso alla pubblicazione. L’inquisitore lo concesse, previa una revisione del libro, che Galileo fece solo in parte. Fu allora che i suoi nemici tirarono fuori gli atti falsificati della prima serie di udienze, e lo scienziato fu accusato di eresia e condannato.

Nel 1992 papa Giovanni Paolo II ha riabilitato solennemente Galileo, e il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede – l’allora cardinale Ratzinger, oggi papa emerito Benedetto XVI – ha riesaminato attentamente in un suo scritto le condizioni che portarono alla condanna di Galileo, ammettendo l’errore dell’Inquisizione. Certo, lo ha fatto forse in maniera “relativistica”, come si può dedurre dalla citazione nel suo testo del filosofo “anarchico” Paul Feyerabend: “La Chiesa dell’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione”.

La Chiesa e gli storici cattolici hanno sempre sostenuto che Galileo non aveva prove a suo favore e che il Vaticano agì con lui in buona fede e rigore intellettuale. Da una serie di documenti presenti negli archivi vaticani si evince come a salvare dal rogo lo scienziato fu proprio il cardinal Bellarmino, il primo accusatore (ma anche caro amico di Galileo), che scrisse di suo pugno “Galilei non è eretico”, aggiungendo però che le sue tesi andavano in quella direzione. Eppure, che si tratti di revisionismo tardivo oppure no, i fatti accertati restano due.

L’abiura e la reclusione. Quando si aprì il secondo processo Galileo era ormai anziano, la sua salute malferma. Il Dialogo aveva avuto un enorme successo, persino il papa in carica, Urbano VIII, si professava suo estimatore. Ma allora perché il Santo Uffizio si rimise all’opera nel settembre del 1632? Le ragioni furono tante: Galileo era troppo famoso, l’umiltà gli faceva difetto. E poi quelle tesi rivoluzionarie… Lo stesso papa, come raccontò l’ambasciatore fiorentino Francesco Niccolini, cambiò idea sullo scienziato: «Proroppe Sua Santità in molta collera e all’improvviso mi disse ch’anche il nostro Galilei avava ardito d’entrar dove non doveva, e in materie le più gravi e le più pericolose che a questi tempi si potesser suscitare».

 

Galileo con Vincenzo Viviani, suo discepolo e assistente dal 1639.

A metà febbraio del 1633 Galileo arrivò a Roma, e fu subito messo agli arresti domiciliari. Solo il 12 aprile l’inquisitore lo interrogò (in latino) e lui poté rispondere (in italiano). Gli interrogatori si susseguirono per settimane fino al 21 giugno, giorno dell’ultima udienza: minacciandolo di tortura, gli chiesero se sostenesse ancora la teoria eliocentrica: «Tenni, sì come tengo ancora, per verissima e indubitata l’opinione di Tolomeo, cioè la stabilità della Terra e la mobilità del Sole” fu l’arrendevole risposta.

Il giorno dopo gli inquisitori lessero a Galileo, genuflesso, la sentenza: «Ti sei reso a questo Santo Offizio veementemente sospetto d’eresia, d’aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine scritture, ch’il Sole sia centro della Terra e che non si muova […] e che la Terra si muova e non sia centro del mondo. […] Ordiniamo che per publico editto sia proibito il libro de’ Dialoghi e ti condaniamo al carcere».

Per salvare la vita, lo scienziato abiurò: «Io Galileo inginocchiato avanti di voi […] con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie […] questo dì 22 giugno 1633».

Condannato alla reclusione a vita, commutata negli arresti domiciliari, non pronunciò mai la frase «E pur si muove» subito dopo l’abiura, ma continuò a scrivere e studiare e morì nel 1642 nella sua casa-prigione di Arcetri. Il corpo giace nella chiesa di Santa Croce a Firenze, lì dove il papa non voleva che venisse sepolto.

Lidia Di Simone – Tratto da Focus Storia Biografie

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