Sismicità, terremoti e tsunami in Puglia
La Puglia, pur non essendo tra le regioni italiane considerate in assoluto a maggior rischio sismico, è stata interessata nel passato da eventi catastrofici di elevato livello, con distruzione di intere cittadine e numerose vittime. Ciò è imputabile sia alla sua vicinanza con zone sismogenetiche importanti (l’Appennino) sia alla presenza nel suo territorio di sorgenti in grado di scatenare attività sismica oltre la soglia del danno.
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di: Giampiero Petrucci (1)
Nessuna area del territorio Pugliese può considerarsi al riparo da un evento sismico, almeno secondo quanto racconta la storia. Se infatti la sismicità del promontorio del Gargano è ben nota e documentata, con il verificarsi addirittura pure di tsunami che hanno inondato vaste aree costiere (1627 e 1646), anche il Salento, nonostante oggi venga considerato praticamente asismico dalla classificazione vigente, ha subìto grande devastazione a seguito di un terremoto. Accadde nel 1743 quando si sviluppò un fenomeno che rappresenta il paradigma di come agiscano i cosiddetti “effetti di sito” e di come territori teoricamente al sicuro possano essere soggetti invece alle azioni delle onde sismiche propagatesi da una sorgente lontana anche diverse decine di chilometri. Se risulta ancora impossibile prevedere i tempi di ritorno di tali eventi, è comunque verificabile l’aumento della vulnerabilità di questi territori causa un’intensa urbanizzazione, spesso indiscriminata e talora abusiva, che certamente non rappresenta il metodo migliore per la salvaguardia dalle catastrofi naturali.
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Figura 1: Distribuzione degli epicentri di terremoti con Magnitudo > 2.0 dal 1975 al 2005. Nel Salento non si nota attività significativa (da: Del Gaudio e al., 2007). |
La pericolosità sismica del territorio pugliese ha una duplice origine: deriva infatti dalla presenza di zone sismogenetiche poco lontane (Appennino) e da sorgenti potenzialmente in grado di scatenare attività sismica oltre la soglia del danno esistenti all’interno della stessa regione. Dalla Fig. 1 si può notare come la distribuzione degli epicentri di eventi con Magnitudo maggiori di 2.0 (periodo 1975-2005) sia piuttosto concentrata nel promontorio del Gargano e praticamente assente nel Salento. Tuttavia, entrambe queste aree geografiche sono state interessate nel passato da gravi disastri a seguito di forti scosse sismiche.
Nel Gargano l’evento più clamoroso risale al 30 luglio 1627. Poco prima di mezzogiorno, si verifica un fortissimo terremoto, di Magnitudo macrosismica stimata 6.7 ed epicentro a Nord-Est di Foggia. Il sisma, il più violento di tutti i tempi registrato in quest’area ed avvertito in un’ampia fascia di territorio dalle Isole Tremiti fino a Napoli, produce danni quantificati fino al grado X della Scala MCS e causa almeno 5000 vittime, numero importante ma fortunatamente limitato dal fatto che a quell’ora molti contadini sono al lavoro nei campi. La struttura sismogenetica responsabile di questo evento non è stata ancora individuata con certezza: alcuni autori indicano come sorgente del terremoto la faglia di Apricena mentre altri propendono per una struttura diversa, orientata in direzione est-ovest, che va dal lago di Lesina alla valle del fiume Biferno (Fig. 2). Numerosi paesi vengono semidistrutti: ad Apricena crolla il 50% degli edifici e muoiono quasi 900 persone. Analoga sorte tocca a S. Severo e Serracapriola dove i decessi sfiorano quota duemila, anche a seguito di un’altra scossa del 4 agosto. Centinaia di morti anche a S. Paolo e Torremaggiore; ingenti danni e vittime pure a Sannicandro, Rignano, Lesina e Chieuti. Tutti questi centri vengono temporaneamente abbandonati. La popolazione vivrà per mesi in abitazioni di fortuna che proprio in questa occasione vengono indicate per la prima volta come baracche, termine preso in prestito dagli spagnoli dato che il Meridione d’Italia, in quel periodo, è sotto il diretto controllo degli Asburgo di Spagna. Il territorio subisce anche importanti effetti al suolo, infatti nel terreno si aprono fratture e voragini, i pozzi eruttano acqua, si segnalano fenomeni di liquefazione nella zona tra il fiume Fortore ed il Lago di Lesina.
Figura 2: Schema tettonico dell’area garganica.
a = unità carbonatiche; b = unità appenniniche; c = unità del Quaternario (Tavoliere); d = fronte appenninico; e = faglie normali; f = faglia di Apricena; g = altre faglie (da: Mastronuzzi, Sansò, 2012)
Pochi minuti dopo la violenta scossa, la forte dislocazione sismica della faglia genera uno tsunami. Il mare davanti al Lago di Lesina si ritira per circa due chilometri e poi torna con violenza, inondando la costa per circa 3 chilometri all’interno, generando la massima ingressione marina mai registrata su un litorale italiano. Il lago è separato dal mare da un cordone litoraneo di dune, di altezza media intorno ai tre metri. L’onda generata dal sisma ha un altezza di almeno cinque metri e dunque, non trovando barriere morfologiche in grado di arrestarla, scavalca le dune ed attraversa l’intero lago, giungendo oltre il paese di Lesina che, completamente inondato, subisce altre perdite umane. La formazione di un grande conoide di accumulo in località La Torre, ben visibile ancora oggi, testimonia dal punto di vista geomorfologico la potenza di questo evento che ha trasportato ed accumulato una grande quantità di depositi terrigeni. Altre zone sono interessate dallo tsunami i cui effetti principali si risentono da Termoli fino al Monte Elio. Vengono allagate le zone costiere tra Silvi e Mutignano oltre alle campagne circostanti Sannicandro. In misura minore viene colpita anche l’area meridionale del promontorio fino a Manfredonia dove un’onda alta due metri arresta la sua corsa contro le mura della cittadina senza provocare danni, ma allagando la zona costiera a sud dell’antica Siponto (Fig. 3). Lo tsunami giunge anche in Abruzzo, nell’area tra Francavilla al Mare ed Ortona, anche se con altezze poco significative. Alla foce del fiume Foro si segnala dapprima il ritiro delle acque e poi una loro ingressione di circa 200 metri (Fig. 4)
Figura 3: La distribuzione delle intensità macrosismiche per il terremoto del 1627 nel Gargano, con valori massimi fino al grado X della Scala MCS. Nella figura sono indicate anche le aree inondante dallo tsunami susseguente (da: De Martini e al., 2003).
Questo evento tuttavia non è il solo registrato per il Gargano. Già nel 1646 si sviluppa infatti un altro terremoto di Magnitudo stimata 6.6, con epicentro a sud di Vico. Gravi danni, con intensità massime fino al grado X della Scala MCS, e vittime si registrano a
Peschici, Rodi, Ischitella (un centinaio di morti), Vieste (132 decessi ufficiali), Carpino e nell’entroterra (Torremaggiore, Sannicandro, S. Giovanni Rotondo, Rignano, Foggia). Pochi minuti dopo la scossa, le acque del Lago di Varano esondano per alcune centinaia di metri (Fig. 5).
Figura 4: Un’antica mappa che testimonia i danni inflitti dal terremoto del 1627. Si noti i pesci che saltano fuori dal lago di Lesina, a conferma dello tsunami. In pratica, può essere considerata la prima mappa macrosismica mai realizzata in Italia poichè a diversi livelli di danno corrispondono simboli differenti. (da: Caridi, 2011).
Dopo appena undici anni, il 29 gennaio 1657, un altro terremoto colpisce il Gargano: si tratta di uno tra i sismi più “dimenticati” della storia, riscoperto solo recentemente grazie ad accurate ricerche annalistiche. La scossa principale, di Magnitudo stimata 6.3, si sviluppa in piena notte e provoca gravi danni per tutto il Gargano settentrionale, in particolare di nuovo a Lesina dove la distruzione raggiunge il grado X della Scala MCS. Tra i paesi più colpiti anche Vico, S. Severo, Torremaggiore ed Apricena. Ignoto il numero delle vittime. S. Severo e Torremaggiore sono i paesi più danneggiati anche nel 1688 (danni riferibili al grado VII della Scala MCS).
Figura 5: La distribuzione delle intensità macrosismiche per il terremoto del 1646 nel Gargano, con valori di intensità massima fino al grado X della Scala MCS (da: Camassi e al., 2008).
Bisogna poi attendere il 6 dicembre 1875 per un altro evento significativo. Questo sisma, notturno e con Magnitudo 5.9, colpisce in particolare i paesi di S. Marco in Lamis e S. Giovanni Rotondo, con intensità pari al grado VIII della Scala MCS e quattro vittime mentre si registrano danni per l’intera provincia di Foggia e le aree campane al confine con la Puglia.
Prima della fine dell’Ottocento si registrano altri due eventi tellurici di un certo rilievo. Nel 1889 (intensità massima grado VII scala MCS e Magnitudo 5.7) ad essere colpiti, oltre ai “soliti” S. Marco in Lamis e S. Giovanni Rotondo, sono anche Apricena, Vico e le isole Tremiti. A questo evento è associato un anomalo movimento del mare registrato sulle coste settentrionali del Gargano, in particolare nei pressi della foce del fiume Fortore.
Figura 6: Lo schema dei terremoti avvenuti nell’area garganica. I cerchi rappresentano gli epicentri: a maggiori dimensioni corrispondono magnitudo più elevate. Le linee nere rappresentano le principali faglie individuate (da: Del Gaudio e al., 2007).
Nel 1893 invece la Magnitudo è leggermente inferiore (5.3) e l’epicentro risulta spostato verso la costa meridionale del Gargano, con ingenti danni a Mattinata (grado IX scala MCS).
Nel XX secolo il terremoto più forte della zona si registra il 18 agosto 1948, con Magnitudo 5.6 ed intensità riferibili al grado VIII della Scala MCS: gli effetti principali colpiscono i paesi di Monte S. Angelo e S. Giovanni Rotondo, i più prossimi all’epicentro.
L’ultimo evento rilevante è invece datato 30 settembre 1995, con epicentro in pieno promontorio e Magnitudo 5.1: causa alcuni danni (grado VI-VII scala MCS) in varie località del litorale settentrionale, a Foggia ed a S. Giovanni Rotondo. Non si deve dimenticare, infine, il tragico evento di S. Giuliano di Puglia del 2002 che, per quanto “esterno”, fu chiaramente risentito in tutto il Gargano (Fig. 6).
Se dunque la sismicità del Gargano è ben nota, meno conosciuta appare la pericolosità sismica della Puglia Meridionale e del Salento in particolare, considerati “aree a bassa sismicità” anche dalle attuali classificazioni vigenti.
Figura 7: Distribuzione delle intensità macrosismiche per il terremoto in Salento del 1743. Si noti l’andamento “a macchia di leopardo”, con valori massimi fino al grado IX della Scala MCS (da: Mastronuzzi e al., 2007).
Tuttavia in queste zone, nel corso dei secoli, sono stati più volte ben percepiti i sismi originatesi lungo le coste albanesi e montenegrine nonché nelle isole ioniche, con ripercussioni talora non trascurabili. L’evento più importante accade il 20 febbraio 1743 quando si sviluppa una scossa fortissima che viene avvertita in tutto il Meridione, a Malta e nel Peloponneso. La Magnitudo è stimata intorno a 6.9, la più alta mai registrata in Puglia, ma l’ubicazione dell’epicentro non è ancora accertata definitivamente. L’ipotesi più probabile è che la sua posizione possa essere in mare, nel Canale di Otranto, ad una cinquantina di chilometri dalle coste pugliesi, ma la distribuzione delle intensità macrosismiche (Fig. 7) non dimostra, come di consueto, una diminuzione al decrescere della distanza dall’epicentro. Ciò può certamente essere imputabile alla diversa risposta all’attraversamento delle onde sismiche di terreni differenti, ma a quest’anomalia potrebbe aver contribuito anche qualche altra struttura tettonica, in particolare le faglie presenti nel Golfo di Taranto, caratterizzato comunque da eventi sismici moderati (tra cui quello del 7 maggio 1983 con epicentro al largo di Gallipoli, M 4.6). Dunque, se il Salento può essere considerato di per se stesso asismico, in realtà non lo è a causa degli effetti che potrebbe subire da forti terremoti originatesi da sorgenti lontane anche decine di chilometri.
Lo dimostra quanto accade nel 1743. I danni sono ingenti anche se disposti in maniera non uniforme e disomogenea: a volte anche a distanza di cinque chilometri troviamo paesi distrutti ed altri praticamente illesi. Più colpita di tutte Nardò, semidistrutta, dove si registrano centinaia di morti anche se le fonti documentali non forniscono un numero esatto di vittime. Accertati invece i danni materiali: il 40% degli edifici è raso al suolo; distrutti la cattedrale ed il suo campanile, il Palazzo di Città, il seminario, la chiesa di S. Francesco da Paola. Appare un miracolo che il numero dei morti sia così limitato e difatti si susseguono le processioni di ringraziamento a S. Gregorio Armeno, il Santo Patrono. A differenza di quanto generalmente accade, nei dintorni della città più colpita dal sisma stavolta non si registrano danni similari. Anzi, l’altra cittadina che subisce gli effetti principali risulta essere Francavilla Fontana, posta ad una sessantina di km a nord-ovest di Nardò. Anche qui la distruzione è notevole, anche se fortunatamente le vittime non superano la ventina. A conferma della disomogeneità dei danni, le abitazioni di Grottaglie, situata ad una dozzina di km da Francavilla, non subiscono praticamente lesioni. In tutto il Salento si registrano danni più o meno gravi, anche a Lecce e Brindisi dove viene seriamente danneggiata la cattedrale. Tra gli altri centri colpiti Supersano, Guagnano, 30 morti e la chiesa matrice distrutta, Mesagne, Racale, Manduria, pure Taranto. Dall’altra parte dello Ionio, sulla sponda balcanica, soltanto nelle isole ionie di Corfù e Lefkada, in particolare nella cittadina di Amaxichi, si registrano vittime.
La distribuzione disomogenea ed anomala, a “macchia di leopardo”, degli effetti di questo terremoto è da imputarsi a fenomeni di amplificazione delle onde sismiche, sviluppati in particolare quando queste incontrano terreni poco rigidi e che rispondono alle sollecitazioni deformandosi in maniera inconsueta. Nardò, la cittadina più colpita, è il paradigma di questa situazione, essendo edificata su sedimenti soffici costituiti da sabbie intercalate ad argille, di origine geologicamente recente. Francavilla Fontana e, in parte, Leverano si trovano nella stessa situazione e per questo subiscono danni similari. Ciò che i contemporanei del sisma descrissero come una terribile pizzica, la danza tipica della zona, ballata in questo caso dagli edifici, fu dunque provocata da questa particolare condizione geologica e dai conseguenti “effetti di sito” amplificatori del moto sismico.
Figura 8: Blocchi rocciosi (boulders) nei pressi di Torre Squillace, sul litorale ionico pugliese, pochi km a nord di Gallipoli. Nel lontano passato anche il golfo di Taranto è stato interessato da tsunami (per gentile concessione di P. Sansò).
La magnitudo elevata di questo sisma del 1743 e la sua localizzazione a mare favoriscono la formazione di uno tsunami, praticamente ignoto fino agli anni Duemila. Le testimonianze storiche risultano infatti scarse e frammentarie: d’altra parte verso la metà del Settecento le coste del Salento erano poco popolate, essendo tra l’altro molte zone paludose ed infestate dalla malaria. Otranto in pratica rimaneva l’unica cittadina di quel tratto costiero, tra l’altro caratterizzato da una morfologia prevalentemente rocciosa a falesie, tale dunque da non permettere un’ingressione marina efficace. Per tutti questi motivi lo tsunami passò praticamente inosservato. Tuttavia, recentemente, si sono ritrovati diversi indizi geologici che confermerebbero lo sviluppo del fenomeno. La chiave dell”indagine eseguita sui litorali pugliesi, in particolare nei tratti rocciosi, è risultata essere l’abbondanza di grandi massi e scogli, pesanti anche decine di tonnellate, presenti a diversi metri dall’attuale riva del mare, molto probabilmente distaccatisi dalla loro posizione originaria in seguito proprio all’arrivo di una grande onda anomala. Questi blocchi rocciosi, detti boulders, generalmente sono disposti in accumuli, spesso paralleli alla linea di riva ed appoggiati gli uni agli altri (figg. 8 e 9).
Figura 9: Il boulder più grande ritrovato a Torre S. Emiliano: peso stimato circa 70 tonnellate (per gentile concessione di P. Sansò).
La loro posizione, le grandi dimensioni, le caratteristiche geologico-geomorfologiche e l’aspetto idrodinamico hanno dimostrato il loro trasporto verso l’interno a seguito di un’onda di tsunami, escludendo contemporaneamente l’ipotesi di uno spostamento legato ad una forte mareggiata. Inoltre nei boulders sono stati individuati anche resti di diversi organismi
marini la cui datazione, eseguita col metodo del radiocarbonio, risulta compatibile con la data del 1743. Infine, i calcoli idrodinamici relativi all’altezza delle onde, crescenti da Sud verso Nord, con valori massimi ipotizzabili di diversi metri, sono compatibili con l’epicentro del terremoto collocato nel Canale di Otranto: la propagazione delle onde si sarebbe quindi sviluppata da Sud-Est, disperdendo progressivamente la propria energia verso Nord.
Tsunami che, a dispetto di quanto creda l’opinione pubblica, non sono così rari ed anomali sul litorale pugliese. La mattina del 21 giugno 1978 infatti la costa da Giulianova a Bari fu interessata da un’onda anomala, provocata da particolari condizioni atmosferiche e fenomeni di risonanza, generata in Adriatico e che inondò la cittadina croata di Vela Luka. Date le sue caratteristiche, il fenomeno è noto in letteratura come “meteotsunami”. Sul nostro litorale i danni furono limitati anche se i porti di Termoli e Bari rimasero all’asciutto per qualche minuto dopo il ritiro del mare che, tornando con una certa violenza, provocò qualche danno agli ormeggi ed il ritrovamento sulle spiagge di molti pesci morti. A Vieste invece l’ondata travolse diversi ombrelloni e qualche turista rimase leggermente ferito.
Ciò dimostra che, seppur non sia prevedibile la stima del tempo di ritorno di questi disastri e sebbene i maremoti italiani siano generalmente di entità molto inferiore a quelli registrati nelle aree oceaniche (originati da strutture sismogenetiche molto più estese), non è comunque con il cemento che si mitiga il rischio, ma con l’educazione ambientale e la consapevolezza di abitare in aree soggette alle calamità naturali.