Cronache di disastri annunciati

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Cronache di disastri annunciati

Non passa minuto ormai che i giornali, le televisioni, internet, i social non ne annuncino qualcuno: un incendio via l’altro in tutta Italia (e non solo); improvvisi temporali con annesse frane e/o inondazione; ondate di calore; crescente carenza d’acqua potabile. Disastri annunciati, appunto. Perché congruenti e, quindi, da mettere in conto, ai cambiamenti climatici.
di Pietro Greco
www.rivistamicron.it

Certo, non c’è alcun nesso deterministico dimostrabile tra i singoli eventi e l’aumento della temperatura media del pianeta. Eppure, nella loro frequenza e variabilità, tutti questi eventi disastrosi devono essere attesi in un regime di rapido mutamento del clima. Sono annunciati, appunto.


Eppure tutti e ciascuno ci colgono impreparati. In maniera del tutto ingiustificata. Perché sono almeno venticinque anni che queste cronache non solo sono state anticipate dalla comunità scientifica e la politica ne ha preso atto.
La Convenzione delle Nazioni Uniti sui Cambiamenti del Clima è stata  approvata a Rio de Janeiro nel 1992, venticinque anni fa, appunto. Essa indicava nei mutamenti climatici un futuro non solo possibile, ma anche indesiderabile. E proponeva due strategie per tentare di contenerli: prevention e adaptation. La prevenzione e l’adattamento.

La prevenzione consiste, in buona sostanza, nell’abbattere in maniera drastica le emissioni antropiche di gas serra (o, come si dice con termine forse meno elegante, sostanze climalteranti). Sia pure a fatica sia l’Unione Europea sia le Nazioni Unite hanno adottato politiche, già in atto, che vanno nella direzione della prevenzione. L’ultima – messa in forse solo dagli Stati Uniti di Donald Trump, ma ribadita dalla Cina e dall’Europa – è quella prevista dagli “accordi di Parigi” del 2015 e ha come obiettivo quello di tentare di contenere l’aumento della temperatura media del pianeta entro questo secolo ben al di sotto dei 2 °C rispetto ai livelli dell’era pre-industriale. Impegno difficile, ma niente affatto impossibile da mantenere.


Questa strategia ha un implicito. In questo momento la temperatura media del pianeta è più alta di circa 1 °C rispetto all’epoca pre-industriale. Secondo le più ottimistiche previsioni, dunque, dobbiamo attenderci un ulteriore aumento compreso tra 0,5 e 1 °C. Negli scenari pessimistici, invece, l’aumento è pari o superiore ai 4 °C.
Dunque il clima continuerà a cambiare e la temperatura ad aumentare. Il che impone il pieno dispiegamento della seconda strategia: dobbiamo imparare anche ad adattarci a questo cambiamento. Dobbiamo, in altri termini, imparare a contrastare l’aumento della frequenza degli incendi, delle onde di calore, degli eventi meteorologici estremi con conseguente dissesto idrogeologico, dell’erosione delle coste per l’innalzamento del livello dei mari; dell’alterazione del ciclo dell’acqua (non significa che pioverà di meno, ma pioverà diversamente).

L’adattamento è in teoria una strategia più facile della prevenzione. Perché si basa non su grandi scelte globali, ma su piccole azioni locali. Una buona manutenzione delle foreste e degli ecosistemi mediterranei per limitare gli incendi; un attento controllo del territorio, per limitare frane e inondazioni; migliori scelte architettoniche per contrastare il grande caldo; migliore captazione e uso dell’acqua potabile, per evitare di rimanere a secco. L’insieme coordinato di queste e altre azioni consentirebbe di catalizzare un’economia alternativa, insieme labour intensive, tecnologicamente avanzata e sostenibile.
Purtroppo né le Nazioni Unite né, tutto sommato, l’Europa hanno pensato a politiche comuni di adattamento. A differenza della prevention, per l’adaptation ciascuno per sé e Dio per tutti. Cosicché alcuni paesi si sono portati avanti con il lavoro e riescono ad adattarsi. Alcuni hanno, addirittura, antiche tradizioni di adattamento: si pensi all’Olanda e all’ultracentenaria capacità di contrastare l’alto livello delle acque marine. In Italia, abbiamo molte più difficoltà.

Il nostro Paese ha aderito – con entusiasmo e anche, almeno finora, con efficacia – alle politiche di prevenzione. Ma poco o nulla sta facendo per le politiche di adattamento.
Facciamo qualche esempio: non è possibile che un parco nazionale come quello del Vesuvio non sia messo in grado di prevenire gli incendi. Non è possibile che la rete idrica della capitale sia un colabrodo che disperde quasi la metà dell’acqua potabile che dovrebbe erogare. È per tutte queste carenze – per questa mancanza di strategia dell’adattamento – che ogni anno ci ritroviamo a “mani nude” ad affrontare le medesime emergenze: gli incendi, i fenomeni meteorologici estremi e il dissesto idrogeologico; l’erosione delle coste; le ondate di calore; la siccità e la carenza di acqua potabile.
È ora di cambiare passo. Occorre un piano di adattamento nazionale, coerente e di lungo periodo. Solo così le cronache potranno evitare di raccontare disastri annunciati sempre più gravi e frequenti.

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