Come sono nati Mercurio, Venere, Marte e la Terra?
Come si sono formati i pianeti rocciosi alla giusta distanza dal Sole? Una nuova ipotesi sembra rispondere meglio di altre alla domanda, e spiega anche perché Marte è più piccolo di quanto dovrebbe.
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Sulla nascita del Sistema Solare vi sono molte ipotesi e ancor più problemi irrisolti, alcuni dei quali riguardano anche la formazione dei pianeti rocciosi, come la Terra.
Una nuova idea, che prende forma da uno studio pubblicato su Astrophysycal Journal Letters, se troverà conferma, sposta l’attenzione sulle prime fasi di vita del Sole, quando la sua iperattività avrebbe innescato e permesso i processi che hanno poi portato alla formazione del Sistema Solare.
Secondo l’ipotesi più accreditata per spiegare la nascita dei pianeti, il tutto prese avvio da una nebulosa ricca di gas e granelli di polvere che si aggregarono tra loro per originare piccoli corpuscoli. Con il trascorrere del tempo questi si unirono tra loro fino a dare vita a corpi sempre più grandi e poi a planetesimi, che infine, unendosi, diventarono pianeti.
«Ma questa narrazione della nascita del Sistema Solare ha dei punti deboli, in particolare per ciò che riguarda la formazione dei pianeti terrestri», spiega Alexander Hubbard, planetologo, autore dello studio. I pianeti terrestri sono quelli più vicini al Sole: nell’ordine, Mercurio, Venere, Terra e Marte, che sono composti da rocce silicatiche e ferro, le cui particelle non si aggregano facilmente fra loro.
FU Orionis. Si sarebbero potute unire tra loro se avessero avuto un rivestimento di ghiaccio e sostanze organiche, ma nonostante gli oceani e la vita basata sul carbonio, il nostro pianeta, ad esempio, ha troppo poca acqua e carbonio perché ciò sia stato possibile.
Hubbard avrebbe trovato la soluzione al problema avanzando una intrigante ipotesi. Il tutto inizia nel 1937, quando una stella giovane inizia a brillare via via sempre più intensamente, fino a 100 volte la luminosità iniziale: è FU Orionis, a 1.600 anni luce da noi, che da allora non ha mostrato altre variazioni. Ma FU Orionis non è stata l’unica giovane stella a comportarsi in quel modo: una seconda fu vista nel 1970 (V1057 Cygni), e poi altre ancora – al punto che venne infine ufficializzata una nuova classe di stelle, denominata variabili FU Orionis (FUor).
Qui arriva l’idea di Hubbard riguardo al Sole: se anche la nostra stella si fosse comportata allo stesso modo nelle fasi iniziali della sua vita, l’energia prodotta sarebbe stata sufficiente per fondere parzialmente i primi granuli di polvere, che in quelle condizioni avrebbero potuto più facilmente unirsi fino a diventare semi dei pianeti terrestri.
Perché Marte è piccolo. Nei sistemi stellari con stelle che non hanno sperimentato questo potente accrescimento di energia iniziale, i grani di polvere si sarebbero fusi solo in prossimità dell’astro, dando origine a sistemi planetari simili a Kepler-11, dove i pianeti di tipo terrestre sono appunto molto vicini alla stella madre.
L’idea di Hubbard sembra però ancora più potente, perché risponde anche a un altro dilemma, una questione mai del tutto chiarita che riguarda la dimensione di Marte.
Il Pianeta Rosso ha un raggio che è poco più della metà di quello della Terra: si ritiene che non crebbe ulteriormente a causa dell’interferenza gravitazionale di Giove. Il gigante gassoso potrebbe però non aver avuto influenza su Marte che, a quella distanza dal Sole, avrebbe potuto giovarsi solo in parte del surplus di energia messo in campo dalla nostra stella. Se diamo credito all’ipotesi di Hubbard, le temperature nella zona di Marte non erano abbastanza alte da favorire in modo adeguato quella parziale fusione delle polveri, col risultato che vediamo oggi: il nostro affascinante vicino ha una massa che è di circa l’11% della nostra.