Il catastrofico terremoto di Mw 6.5 che colpì il Friuli il 6 maggio 1976
Catastrofico terremoto in Friuli. Alle 21 una scossa sismica dell’ottavo grado della scala Mercalli ha devastato Maiano, Buia, Gemona, Osoppo, Magnano, Artegna, Colloredo, Tarcento, Forgaria, Vito d’Asio e molti altri paesi della pedemontana. Generosa opera di soccorso per estrarre le vittime dalle macerie. A Udine e in tutti i centri della regione una notte di paura e di veglia all’aperto. L’alba ci mostra i segni dell’immane disastro. [da Messaggero Veneto, 7 maggio 1976]
La prima pagina del Messaggero Veneto del 7 maggio 1976.
La sera del 6 maggio 1976 ebbe inizio in Friuli una delle sequenze sismiche più forti e devastanti della seconda metà del Novecento in Italia. L’evento principale avvenne alle ore 21 locali del 6 maggio e raggiunse un valore di magnitudo momento Mw pari a 6.5, fra i più alti mai registrati nell’Italia settentrionale; l’intensità epicentrale fu pari al IX-X grado della scala macrosismica Mercalli-Cancani-Sieberg (MCS).
La scossa interessò circa 120 comuni delle province di Udine e di Pordenone, per una popolazione complessiva di circa 500.000 persone. Gli effetti più distruttivi si ebbero nella zona a nord di Udine lungo la media valle del Tagliamento, dove interi paesi e cittadine subirono estese distruzioni; fra questi Gemona del Friuli, Forgaria nel Friuli, Osoppo, Venzone, Trasaghis, Artegna, Buia, Magnano in Riviera, Majano, Moggio Udinese, solo per citarne alcuni.
Effetti del terremoto del 6 maggio 1976. E’ ben visibile la notevole estensione dell’area con diffusi effetti distruttivi (≥VIII grado MCS) (fonte: DBMI11).
Gravi danni e crolli si ebbero anche in tutta l’area carnica, mentre danni diffusi, di moderata entità, interessarono le città di Udine e di Pordenone. Danni più leggeri furono registrati fino a Gorizia e a Trieste, verso sud-est, e in molte località del Veneto e del Trentino-Alto Adige verso ovest e sud-ovest, da Verona a Venezia, da Bolzano a Treviso, da Belluno a Padova, da Trento a Vicenza.
La devastazione a Forgaria nel Friuli (UD) [foto Diego Molin]
La scossa fu avvertita in un’area vastissima, estesa a tutta l’Italia centro-settentrionale fino a Roma e a Torino, all’Austria, alla Svizzera, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, gran parte della Germania e della Croazia e parte della Francia, della Polonia e dell’Ungheria. Inoltre, produsse danni, oltre che nelle regioni Friuli-Venezia Giulia e Veneto, in vaste aree dell’Austria meridionale ed in buona parte della Slovenia.
Veduta aerea delle rovine di Venzone (UD) [foto Diego Molin]
L’estensione dell’area colpita fu di circa 5000 kmq. Complessivamente furono distrutte circa 17.000 case, morirono 965 persone ed altre 3.000 rimasero ferite. Quasi 200.000 persone persero la casa (Boschi et al. 2000).
Moltissime le repliche. Le più forti si verificarono a oltre 4 mesi dall’inizio della sequenza, l’11 e il 15 settembre 1976, con intensità analoghe a quella della scossa del 6 maggio. Ci furono nuovi gravi danni, ulteriori distruzioni e qualche vittima. Un’altra forte scossa avvenne un anno più tardi, il 16 settembre 1977.
Le scosse dell’intera sequenza sismica vennero localizzate con i dati degli osservatori sismologici allora esistenti, italiani ed esteri (es., Trieste, Bologna, Pavia, Lubiana, Zagabria, Garmisch, … ). Importante era la stazione di Trieste che faceva parte delle stazioni della Worldwide Seismographic Stations Network (WWSSN), la più vicina all’epicentro, gestita dall’Osservatorio Geofisico Sperimentale (oggi Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale). Il monte San Simeone fu indicato come epicentro e divenne per tutti i friulani il simbolo dell’Orcolat, l’orco tradizionalmente associato ai terremoti (fonte Edurisk).
L’ultimo terremoto di entità paragonabile a quella della scossa del 6 maggio 1976 era avvenuto quasi 500 anni prima, nel marzo 1511, e prima ancora nel 1348. Tuttavia in questo settore terremoti potenzialmente distruttivi, ovvero di magnitudo pari o superiore a 5.5, avvengono frequentemente: negli ultimi otto secoli nell’area del Friuli Venezia Giulia se ne è verificato in media uno ogni 80 anni, mentre terremoti che hanno causato effetti al di sopra della soglia del danno lieve sono documentati storicamente in media ogni 6 anni circa. Negli ultimi 30 anni si sono verificati tre terremoti di magnitudo superiore a 4.5 entro 100 km da Udine (fonte: ISIDE), ma grazie all’importante opera di ricostruzione e di adeguamento antisismico nel settore friulano questi terremoti non hanno provocato danni.
Schema sismotettonico dell’Italia nordorientale (da Cheloni et al., 2012). Le linee nere rappresentano le strutture tettoniche cartografate (TR, Tricesimo fault; SU, Susan fault; BU, Buia fault; BE, Bernadia thrust; PE, Periadriatic thrust ). I cerchietti verdi sono gli epicentri degli aftershock del terremoto del 1976, tra i quali sono evidenziati in rosso quelli più forti (da Peruzza et al., 2002). Nell’inserto in basso a sinistra sono mostrati i meccanismi focali dei terremoti principali (vedi testo sotto).
I terremoti della regione alpina e prealpina in Italia nord-orientale sono causati dalla spinta della placca adriatica verso nord, che avviene con una velocità di circa 1.5-2 mm/anno rispetto all’Europa stabile (D’Agostino et al.2005). Nell’inserto in alto a sinistra si vede la posizione del polo di rotazione della placca Adria rispetto all’Europa (stella) che spiega la compressione sul fronte alpino. I meccanismi focali dei terremoti del 1976, come pure di quelli avvenuti negli anni successivi, riflettono proprio questo processo di raccorciamento crostale. Sono infatti tipici meccanismi compressivi, con asse di compressione orizzontale orientato nord-sud e piani di faglia inverse orientate est-ovest (Aoudia et al. 2000; Pondrelli et al. 2001). I dati sismici e geodetici registrati durante i terremoti principali, pur non essendo di elevata qualità come quelli odierni (non esistevano ad esempio le misure satellitari GPS e DInSAR), hanno permesso di ricostruire la geometria delle faglie responsabili dei terremoti e il movimento avvenuto su di esse durante le rotture principali (si veda Cheloni et al., 2012, 2014 e la bibliografia riportata).
con il contributo di Filippo Bernardini, INGV-Bo.