La grande caldera dei Campi Flegrei potrebbe essere più vicina a un’eruzione di quanto finora pensato. Lo suggerisce un’analisi del comportamento sismico e bradisismico dell’area vulcanica più monitorata al mondo. L’ultima eruzione avvenne nel 1538 e portò alla formazione di Monte Nuovo
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La caldera dei Campi Flegrei – che occupa più di 100 chilometri quadrati in un’area fortemente urbanizzata – sta entrando in una fase critica nella quale i fenomeni di sollevamento del suolo e di sismicità locale potrebbero diventare più intesi.
Un modello elaborato da ricercatori dell’Osservatorio Vesuviano dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia di Napoli e dell’University College di Londra suggerisce inoltre che un’eruzione della caldera potrebbe essere più vicina di quanto finora pensato. La ricerca che ha portato Christopher Kilburn, Giuseppe De Natale e Stefano Carlino a queste conclusioni è illustrata in un articolo pubblicato su “Nature Communications”.
Operazioni di monitoraggio alla solfatara di Pozzuoli, nei Campi Flegrei. (Science Photo Library / AGF)
La caldera mostra segni di “irrequietezza” da 67 anni, con piccoli terremoti locali e sollevamento del suolo; episodi di particolare intensità si ebbero negli anni cinquanta, settanta e ottanta, tanto da portare all’evacuazione precauzionale di decine di migliaia di persone nel 1970 e 1983. Fenomeni sismici e di sollevamento del suolo particolarmente intensi e veloci precedettero infatti l’ultima eruzione in epoca storica della caldera, avvenuta nel 1538, che causò la formazione del cono vulcanico di Monte Nuovo.
Dopo un periodo di relativa calma, i fenomeni si sono ripresentati a partire dal 2005, costantemente monitorati dall’Osservatorio Vesuviano, che oggi può contare anche sui primi dati ottenuti grazie a una perforazione a fini scientifici di un pozzo nell’area di Bagnoli (come è illustrato nell’articolo di Giuseppe De Natale e colleghi pubblicato sul numero di maggio di “Le Scienze”).
Anche sulla base di questi dati, i ricercatori hanno potuto elaborare un modello che mostra che i sollevamenti del suolo avvenuti a partire dagli anni cinquanta indicano un effetto di accumulo di sforzi in profondità, che rendono il vulcano più suscettibile di eruzione.
Incisione del XIX secolo che ritrae il Monte Nuovo. (Science Photo Library / AGF)
L’accumulo di sforzi nelle rocce fa sì che queste cambino la loro risposta alle sollecitazioni, che da ‘elastica’ diviene ‘fragile’, ossia la roccia comincia a rompersi. Se la sollecitazione continua, arriva al suo punto di rottura, creando fratture che collegano la superficie alla zona profonda in cui si accumulano le sollecitazioni. In queste condizioni, un’eruzione diviene molto probabile.
“Non sappiamo se o quando questo periodo di deformazione a lungo termine porterà a un’eruzione, ma intanto il nostro modello spiega bene quel che accadde in un’area molto simile ai Campi Flegrei, quella di Rabaul in Papua Nuova Guinea, che eruttò nel 1994 dopo un modesto episodio deformativo (una decina di centimetri), in un’area che aveva però già accumulato, nei decenni precedenti, alcuni metri di sollevamento” ha detto Christopher Kilburn.
“Quanto l’attuale condizione dei Campi Flegrei sia vicina al punto critico dipende molto dallo stato fisico attuale del sottosuolo flegreo. Calcolare, quindi, con precisione il reale stato fisico delle rocce profonde ai Campi Flegrei è una priorità per la ricerca futura. Un obiettivo cruciale che può essere raggiunto in maniera efficace grazie a perforazioni profonde che possono esplorare direttamente le proprietà ‘non elastiche’ del sistema. Questo nuovo modello interpretativo rappresenta un’importante evoluzione rispetto ai metodi di previsione delle eruzioni, essenzialmente empirici, utilizzati finora”, conclude De Natale