Il rapporto preliminare sugli obiettivi scientifici di Venera-D è disponibile in rete
Venera come Венера, Venere in cirillico. E D come l’iniziale di Dolgozhivuschaya, parola russa per “lunga vita”. In breve, Venera-D: questo il nome dell’ipotetica, futura missione verso la sorella della Terra che esperti della Nasa e dell’Iki – l’Istituto di ricerca spaziale dell’Accademia delle scienze russa – riuniti insieme questa settimana stanno progettando.
Tre volte lunga, la “lunga vita” di Venera-D, visto che la missione – per ora solo allo studio – aspira a mandare verso il secondo pianeta del Sistema solare tre diversi oggetti in un colpo solo. Un orbiter, dunque una sonda che giri attorno al pianeta, con durata prevista di tre anni. Un flyer, ovvero una sorta di aereo, pensato per volare in modo autonomo nella bassa atmosfera di Venere raccogliendo dati per tre mesi. E infine l’oggetto più ardito: un lander, che vorrebbero veder atterrare sul suolo di Venere, il più infernale del Sistema solare, dove un effetto serra senza rivali porta a temperature sufficienti a fondere il piombo. Per il lander, è comprensibile, quanto a “lunga vita” occorrerà accontentarsi: tre ore. Comunque un’eternità, dato il contorno.
Fra gli scopi scientifici della missione, perché è di questo che stanno ora ragionando i ricercatori americani e russi, la solita enorme domanda: scoprire se nel passato di Venere ci siano mai state le condizioni per sostenere la vita.
Sono le domande “giuste”, quelle alle quali potrebbe rispondere Venera-D? Media Inaf lo ha chiesto a Giuseppe Piccioni, astrofisico all’Inaf Iaps di Roma e principal investigator di Virtis, uno degli strumenti a bordo della sonda Esa Venus Express, dal 2005 al 2014 inviata speciale attorno al nostro vicino di casa.
«Come è intuibile, il rapporto di missione pubblicato dalla collaborazione tra Nasa e Iki arriva dopo diversi anni di preparazione ed è basato sulle discussioni scientifiche, le linee guida e i suggerimenti diretti o indiretti soprattutto dalla passata missione Venus Express. Molti membri del gruppo di studio di Venera-D, tra l’altro, hanno fatto anche parte del team di Venus Express e quindi sono “ben informati” sulle questioni scientifiche che ci aspettiamo di risolvere attraverso le future missioni a Venere. Venera-D si pone l’obiettivo di rispondere a molte domande ancora aperte che riguardano soprattutto la conoscenza dettagliata della composizione atmosferica, della superficie e della loro interazione chimica e dinamica. Certo è che non potrà rispondere a tutto, ma la definizione della strumentazione a bordo è ancora in una fase di trade-off tecnologico e quindi restiamo in attesa di sviluppi».
Sembra una missione tre volte complicata: un orbiter per tre anni, più un “aereo” per volare tre mesi in bassa atmosfera, e infine un lander destinato a durare tre ore. Ha senso? E soprattutto: è realizzabile?
«Indubbiamente la missione è molto ambiziosa nel suo taglio “ambitious”, come appunto definito nel rapporto. Penso tuttavia che l’ambizione sia importante nelle missioni spaziali, soprattutto nella prima fase di studio, per poi dar il giusto spazio alla realizzabilità tecnica. Il punto di forza è la modularità della missione, che – in caso di complicazioni eventuali per certi sottosistemi – permette di non compromettere totalmente il ritorno scientifico dell’intera la missione. Dire se sarà tutto realizzabile a oggi è praticamente impossibile ma, come sempre in questi casi, molto dipenderà dalle risorse impiegate e disponibili, soprattutto per la parte tecnologica del lander e della piattaforma aerea volante, le cui condizioni operative sono più critiche per le condizioni ambientali estreme del pianeta Venere».
Nasa e Accademia delle scienze russa insieme, in quest’occasione. Assente l’Europa. Come mai secondo lei l’Esa – per ora, almeno – è fuori? È ancora sazia da Venus Express?
«Il progetto Venera-D in realtà inizia quasi 15 anni fa come missione completamente russa. La sua storia è stata un po’ travagliata per diversi motivi, soprattutto a causa di alcune missioni russe fallite, in particolare quella di Phobos che ha stravolto completamente tutta la pianificazione futura. Il programma poi ha ripreso il suo corso pochi anni fa, quando lo stimolo degli scienziati ha sollecitato attivamente la collaborazione tra Nasa e Iki. Poi, la crisi di Crimea e Ucraina ha di fatto interrotto tutte le collaborazioni tra Usa e Russia, incluse purtroppo anche quelle prettamente scientifiche. Fortunatamente i rapporti si sono recentemente riammorbiditi e quindi il tutto sembra essere finalmente ripartito. L’Esa nello specifico è rimasta a guardare, non certo per mancanza di interesse ma, come purtroppo tendenza ormai consolidata, per un’eccessiva indipendenza nel suo programma di esplorazione che, in un modo o nell’altro, impegna tutte le risorse disponibili a lungo termine e riduce significativamente le capacità di collaborazione con le altre agenzie. Penso che una maggiore attenzione al contesto internazionale sia la vera necessità di cui abbiamo bisogno che venga intrapreso da Esa, per essere più pronti alle sfide sempre più competitive del domani».