Greenpeace: «Nessuno può trivellare l’Artico senza rischi. Nemmeno l’Eni» (VIDEO)

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Greenpeace: «Nessuno può trivellare l’Artico senza rischi. Nemmeno l’Eni» (VIDEO)

Il governo norvegese in tribunale per la concessione di nuove licenze di trivellazione nell’Artico
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Oggi Greenpeace ha lanciato una campagna contro  Goliat, un gigantesco progetto petrolifero nel Mare di Barents meridionale, a circa 65 Km al largo della costa norvegese che appartiene per il 65% a Eni e per il 35% alla compagnia statale norvegese  Statoil.

Secondo Greenpeace quella di Goliat è una storia fatta di «Oltre una dozzina di incidenti nel 2016. Non meno di sei notifiche di perdite di gas o di rilevamenti di gas sulla piattaforma in 5 mesi di attività.  Un black out al sistema elettrico a fine agosto scorso. Un disastro sfiorato nel 2012, quando una delle piattaforme attive nel campo Goliat, la Scarabeo 8, si inclinò pericolosamente».

Gli ambientalisti spiegano che «Il giacimento è stato scoperto nel 2000 e dal 2004 ci siamo opposti alle prime trivellazioni: non solo perché trivellare l’Artico è ingiusto dal punto di vista ambientale, ma perché sappiamo che è difficile e che nessuno può farlo senza pericoli. Tantomeno Eni. Secondo l’agenzia di controllo statale per le attività petrolifere in Norvegia da quando Goliat è entrata in funzione, nel marzo del 2016, ha collezionato in pochi mesi una dozzina di incidenti. La stessa agenzia a fine agosto scorso  ha chiesto al colosso di interrompere le operazioni fino all’inizio di settembre, ma non è tutto qui. Sempre nel 2016, da aprile a dicembre, l’agenzia di controllo ha effettuato un audit nell’aziendaper controllare la sicurezza e l’ambiente di lavoro su Goliat. Ha trovato almeno 4 violazioni e due punti da migliorare.

Greenpeace le riassume così le violazioni: 1. Gestione della salute, della sicurezza e dell’ambiente: Eni non ha garantito una corretta gestione della salute, della sicurezza e dell’ambiente nelle attività, risorse e processi necessari per le operazioni previste. I piani a breve e lungo termine per assicurare la gestione della salute, della sicurezza e dell’ambiente sono poco conosciuti, e le risorse disponibili non sono sufficienti per svolgere le attività previste a bordo. 2. Mappatura di capacità e competenze sul luogo di lavoro: il piano di mappatura delle condizioni di rischio su Goliat è carente. La capacità e l’expertise nell’azienda non sono sufficienti per realizzare uno studio e una valutazione dei rischi per il personale di bordo. 3. Ruoli, responsabilità e informazioni: la ripartizione dei ruoli e delle responsabilità tra l’organizzazione operativa su Goliat di Eni e le organizzazioni a terra a Hammerfest e Stavanger non è chiara. Inoltre, le informazioni importanti su tali questioni come lo status dei casi segnalati e i piani di sicurezza sul lavoro e manutenzione non sono stati comunicati agli utenti al momento giusto. 4. Operatività del Comitato di coordinamento dell’ambiente di lavoro (K-AMU) e disposizioni per una vera partecipazione dei lavoratori: il K-AMU per Goliat non ha un mandato chiaro e conosciuto e vi è incertezza sui delegati eletti. Le disposizioni per una reale partecipazione dei lavoratori attraverso K-AMU e il sistema di sicurezza delegato sono insoddisfacenti».

I punti da migliorare sono: «Manutenzione inadeguata: Inadeguata manutenzione delle uscite di sicurezza. Illuminazione inadeguata nelle aree di carico».

L’associazione ambientalista ricorda che «Solo poche settimane fa l’agenzia norvegese per il controllo sulle attività petrolifere aveva notificato ad Eni l’esigenza di riesaminare i piani attuali, le priorità e l’uso delle risorse per assicurare il buon funzionamento di Goliat. La settimana scorsa Goliat è stata riavviata dopo essere stata ferma per oltre un mese a causa di riparazioni sul tubo di scarico, ma le attività sono durate poco: la produzione è stata interrotta al fine di effettuare nuove manutenzioni su una valvola nel sistema di compressione del gas. A detta di Eni, il lavoro dovrebbe essere completato nei prossimi giorni. Insomma, con ogni probabilità Goliat andrà avanti nonostante tutto: Eni ha investito troppo per abbandonare ora questo progetto. Una spesa enorme per un enorme e pericoloso buco nell’acqua: la stima dei costi effettuata da Eni all’inizio del 2009 era di circa 3,3 miliardi di euro. Nel 2015 la stima è quasi raddoppiata salendo a circa 5,3 miliardi di euro, ma, secondo alcuni analisti finanziari norvegesi, Goliat potrebbe non produrre mai profitti. Un motivo in più per fermarla, come se quello ambientale e di sicurezza non bastassero.

Intanto sul petrolio artico norvegese cade anche una tegola guidiziaria: Il tribunale distrettuale di Oslo ha annunciato le date dell’udienza per il caso clima accolto contro il governo norvegese per la concessione di nuove licenze di trivellazione nelle acque del Mar glaciale Artico. La prima udienza si terrà il 13 novembre. A presentare il ricorso sono Greenpeace Nordic e Nature and Youth, un’organizzazione ambientalista giovanile norvegese. L’accusa sostiene che «il governo norvegese stia disattendendo l’accordo di Parigi e violando il diritto costituzionale norvegese alla salute e alla tutela dell’ambiente di tutte le generazioni presenti e future».

Greenpeace Nordic e Nature and Youth  denunciano che «Il governo norvegese – per la prima volta in vent’anni – ha concesso lo sfruttamento di una nuova area nel Mare di Barents, permettendo a Statoil, Chevron, Lukoil e altre dieci compagnie petrolifere di avviare nuove campagne esplorative nel 2017. Statoil ha già annunciato che inizierà le trivellazioni quest’estate. L’autorizzazione di nuove trivellazioni non è compatibile con l’impegno assunto dalla Norvegia, con la ratifica dell’accordo di Parigi: ridurre le proprie emissioni di CO2  e contenere l’aumento della temperatura globale a 1.5° C.

Greenpeace Nordic e Nature and Youth sosterranno in aula «il diritto a un ambiente sicuro e sano per le generazioni future, così come previsto nella Costituzione norvegese: un diritto che non era mai stato fatto valere presso una corte di tribunale».

Le due organizzazioni evidenziano che «Si tratta del primo caso giudiziario, dopo l’accordo di Parigi, che cerca di opporsi alle trivellazioni di nuovo petrolio e gas, ma è anche parte di un’onda globale di persone che si battono per il clima, chiedendo ai governi e ai grandi responsabili dell’inquinamento di rendere conto delle proprie azioni».

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