E’ possibile guardare la morte con un’altra prospettiva?

0

Le grandi innovazioni della tecnologia medica e della scienza, sono in grado oggi di mantenere in vita malati – per i quali in passato non vi era nessuna speranza di prolungare artificialmente l’esistenza – che non ritroveranno mai più una condizione di salute e di vita accettabili. Tale situazione viene comunemente definita “accanimento terapeutico”.

La definizione di ‘morte cerebrale’, risalente alla fine degli anni ’60, ha permesso peraltro lo sviluppo della chirurgia dei trapianti, quando in precedenza il prelievo degli organi da un paziente con cuore ancora battente, era comunque considerato reato. Al centro dell’odierno dibattito scientifico e sociale, ci sono interrogativi sempre più cruciali: fino a che punto è giusto mantenere in vita un corpo ormai logoro e incapace di assicurare la minima dignità all’insieme psico-fisico definito persona? Qual è la linea che segna il confine decisivo tra l’ineludibile assistenza medica e l’accanimento terapeutico?

La recente vicenda di Eluana Englaro ed altre simili, come quelle di Piergiorgio Welby e di Terry Schiavo, hanno fatto riflettere il mondo intero, evidenziando l’urgenza di tale riflessione. Il valore incomparabile della libertà, della sacralità e della dignità della vita e del rispetto di tutte le vite, dovrebbe essere patrimonio comune di ogni corpo sociale, a prescindere dall’orientamento scientifico o religioso individuale, e andrebbe tutelato non solo nei confronti degli umani ma verso ogni creatura vivente, anche se non umana.

E’ la vita che va tutelata in ogni sua manifestazione. Sulla base di tale imprescindibile valore comune, la scienza e la cultura religiosa possono offrire prospettive preziose di comprensione, da cui derivare suggerimenti e orientamenti che aiutino ciascuno di noi a ben definire le nostre scelte, poiché in ultima analisi non può essere che il singolo individuo, nell’intimo della propria coscienza, ad essere responsabile delle proprie decisioni, libero di autodeterminarle sempre nel rispetto delle libertà altrui.

Nel complesso contesto umano, sociale e scientifico, diventa sempre più importante, e oramai urgente, offrire informazioni e insegnamenti sul processo del morire ma anche sul post-mortem, secondo prospettive medico-scientifiche ma necessariamente anche spirituali, umanistiche ed esistenziali, operando con sensibilità e riguardo, affinché ciascuno possa costruirsi – liberato da intrusioni o pregiudizi culturali – una chiara visione del proprio volere e darne esplicita ed altrettanto chiara indicazione attraverso il testamento biologico ed altri utili strumenti, che la società potrà individuare e destinare a questo scopo.

Possiamo avere migliori opportunità di auto-determinare il nostro presente e il nostro futuro, se ci apriamo ad una più profonda comprensione del fenomeno morte, prendendo le distanze dai tanti tabù e dalle tante rimozioni dell’immaginario collettivo, che abitualmente ne ostacolano una matura elaborazione. Infatti, solo crescendo in consapevolezza, possiamo crescere in senso di responsabilità e in libertà.

A questo scopo, chi scrive si sta occupando personalmente, da anni, dell’assistenza ai malati incurabili, ai parenti stretti di tali malati e a tutto il corpo medico coinvolto nella cura e nell’assistenza, offrendo strumenti di riflessione sulla base della tradizione sociologica, psicologica, filosofica e spirituale indovedica, che può estendere in maniera significativa la nostra percezione e concezione della persona e dell’evento morte. Il come, lo si può comprendere attraverso un tessuto continuo di considerazioni intimamente collegate fra di loro, peraltro contenute nel testo da me redatto “Psicologia del Ciclo della Vita – Esperienze oltre nascita e morte” (Marco Ferrini, Edizioni Centro Studi Bhaktivedanta).

Aiutare chi muoreMa non chiediamoci soltanto cosa fare con gli organi di un corpo ormai giunto al capolinea di questa vita; pensiamo anche al futuro di quella persona che lo ha abitato e che, secondo la prospettiva indovedica, continuerà la propria esistenza anche dopo aver lasciato quel corpo fisico. Come aiutare, allora, la persona ancora imprigionata in quello scafandro ormai logoro? Come stimolarla a prepararsi interiormente al suo abbandono? Come orientare il percorso evolutivo che principierà dopo l’attestazione della sua morte clinica? La risposta a questi interrogativi è importante, non solo per chi opera nel settore sanitario, ma per ogni individuo.

Accoglienza, assistenza e accompagnamento sono in questo ambito tre concetti chiave. Accogliere, significa incontrare l’altro, aprire non solo le braccia, ma anche il cuore e la mente. Assistere, vuol dire intervenire con delicatezza, entrando in empatia, prestando ascolto alle modalità e ai bisogni dell’altro. Accompagnare, significa mettersi a fianco della persona, senza precederla, ponendosi quasi dietro di lei, essere una presenza umile e affettuosa, stimolandola a procedere. Accompagnare è sospingere dolcemente, far giungere a destinazione con calore e bontà, con empatia, compassione e misericordia.

La tradizione indovedica non utilizza tecniche psicoterapeutiche, ma offre insegnamenti volti allo sviluppo di una visione cosmica della vita, dell’uomo e del mondo, che non si concentra sulla risoluzione di disagi psicologici, ma sulla elevazione di una consapevolezza globale, affinché chi la applica possa riscoprire l’interezza della propria natura sul piano bio-psico-spirituale, ed esprimere tutte le proprie potenzialità e aspirazioni più nobili, affrontando anche la morte in uno stato di pace interiore.

Perché esiste la morte? Chi o che cosa muore? Come ci possiamo preparare? In cosa consiste il morire? Come assistere il malato nello stadio terminale? Come interagire con i suoi familiari e con il personale sanitario? Interrogandosi sinceramente su tali domande, si perviene a intuizioni sorprendenti, talvolta in grado di farci sentire oltre il cangiante flusso di questo mondo rutilante e ingannevole (i Veda lo definiscono maya che significa “illusorio”).

La prima domanda da porsi è: quando l’obiettivo medico-farmacologico non è più raggiungibile, cosa si può fare per prendersi cura della persona? Si può trasformare un evento traumatico come la morte in un’esperienza evolutiva? Il fenomeno morte viene abitualmente vissuto come fine di tutto, dissoluzione, scomparsa, con tonalità che vanno dal rassegnato al drammatico, fino al disperato. Eppure, secondo la tradizione filosofico- spirituale indovedica, la morte non esiste come entità, ma solo come concetto o momento di passaggio da un segmento di vita ad un altro.

Attraverso un percorso di consapevolezza, ogni essere umano può quindi imparare a “viverla”, percependo che la propria identità è diversa da quella del corpo e scoprendo di fronte a sé una nuova fase della propria eterna esistenza, da progettare costruttivamente. La Bhagavad-gita (II.20) afferma: “L’essere non nasce, né muore. E’ eterno. Non muore quando il corpo è distrutto”. Tagore scrive: “Si cammina quando si leva il piede come quando lo si posa. Come l’alba prepara un nuovo giorno che giungerà poi al tramonto, così il tramonto, attraverso la notte, cederà il posto ad una nuova alba”.

La vita scorre incessante e se ne comprendiamo il senso evolutivo e infine il suo arcano significato trascendente, possiamo superare anche la paura più grande, quella della morte e – realizzando l’immortalità della nostra essenza – ridare nuova speranza alle profonde aspirazioni di ogni essere, verso autentiche libertà e felicità, oltre i limiti dello spazio e del tempo.

Articolo di Marco Ferrini (Matsyavatara Dasa)

Pubblicato da Centro Studi Bhaktivedanta (https://plus.google.com/108731842801820284877)

Fonte: http://psicologiaespiritualita.blogspot.it

Share.

Leave A Reply